Displasia d’anca, nuovi orientamenti nella chirurgia protesica

L’Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna ha messo a punto una tecnica chirurgica per l’intervento di protesizzazione dei pazienti con artrosi secondaria causata da displasia di anca congenita che ha ricevuto il plauso dall’American Academy of Orthopedic Surgeons. La tecnica è frutto di un’esperienza quasi centenaria dell’Istituto nel trattamento di questa patologia

La displasia dell’anca è una patologia congenita, caratterizzata da un’elevata familiarità, che interessa l’articolazione coxo-femorale.
Se in passato la patologia veniva riconosciuta solo tardivamente a seguito degli esiti precoci della stessa – dolore a carico delle anche, zoppia, difficoltà nel movimento dell’articolazione – grazie allo screening effettuato in età neonatale è da diversi anni possibile diagnosticarla precocemente, trattarla già dai primi mesi di vita e risolverla spesso in maniera definitiva.

In alcuni casi però a seguito della gravità della malformazione o a un riconoscimento più tardivo, l’evoluzione della patologia porta allo sviluppo di un’artrosi precoce di tipo secondario e alla necessità di un intervento chirurgico di protesizzazione. Il trattamento chirurgico è più complesso rispetto a quello tradizionale di persone con coxartrosi non legata alla displasia congenita d’anca.

L’équipe della Clinica Ortopedica e Traumatologia I dell’Istituto Ortopedico Rizzoli diretta dal prof. Cesare Faldini ha messo a punto una tecnica chirurgica innovativa e mininvasiva di artroprotesi in pazienti displasici che rappresenta oggi lo stato dell’arte nel trattamento dell’artrosi secondaria legata a questa patologia.

Displasia congenita di anca, alterazione di forma

La displasia dell’anca ha un’incidenza territoriale estremamente variabile. In Italia, nella bassa padana e nella zona prealpina, raggiunge i valori più elevati con 4 casi per 1000 nati vivi ogni anno, dato che si ridimensiona in maniera significativa nel resto del Paese con valori di 0,1 casi per 1000 nati vivi ogni anno.

Cesare Faldini, direttore Clinica Ortopedica I, Istituto Ortopedico Rizzoli di Bologna

«La displasia congenita dell’anca e il piede torto congenito sono le due deformità sulle quali si è sviluppata alla fine dell’800 l’ortopedia», ricorda il prof. Faldini. «L’anca è l’articolazione che si è modificata maggiormente con l’evoluzione dell’uomo e il suo passaggio alla stazione eretta, e può sviluppare un’alterazione di forma, la displasia congenita, che riguarda la cavità cotiloidea, che accoglie la testa del femore, l’epifisi prossimale del femore o entrambe. La minor profondità della cavità cotiloidea determina una instabilità dell’articolazione consentendo alla testa del femore di fuoriuscire.
Questa alterazione si evolve dalla nascita, all’età del cammino, durante l’accrescimento fino all’età adulta. Identificarla in fase precoce, nel neonato, è stata la grande sfida della medicina dei primi anni ’20 dello scorso secolo ed è stato merito del prof. Marino Ortolani, pediatra ferrarese, la scoperta nel 1935 di una manovra a scatto che oggi prende il suo nome e che fa parte degli accertamenti diagnostici di questa patologia».

Il trattamento precoce

Quando la displasia congenita dell’anca viene identificata nel periodo neonatale (periodo di pre-lussazione) il trattamento prevede l’utilizzo di un divaricatore, un posizionatore che permette all’anca di svilupparsi in maniera più adeguata.

«Se questa malformazione non viene riconosciuta prima che il bambino inizi a camminare, evolve verso un quadro clinico più complesso che avrà indicazione chirurgica», precisa il prof. Faldini. «È stato merito di Vittorio Putti, direttore dello Istituto Ortopedico Rizzoli dal 1915 al 1940, di aver sistematizzato gli interventi per correggere l’anca displasica e l’anca lussata. Non parliamo ancora in quel periodo di una chirurgia protesica, bensì di un riposizionamento della testa del femore all’interno della cavità acetabolare con procedure che permettevano di migliorare la funzionalità dell’anca e di ritardare il processo artrosico».

La diagnosi precoce, oggi effettuata attraverso l’ecografia, l’applicazione del cuscino divaricatore, il controllo clinico durante l’accrescimento hanno ridotto in maniera significativa l’incidenza della sublussazione e della lussazione conseguenze dell’anca displasica.

«Le terapie precoci migliorano la forma della testa del femore e riducono le conseguenze delle alterazioni di forma», continua il prof. Faldini. «Rispetto al passato, oggi molti bambini displasici guariscono completamente, senza esiti di artrosi secondaria. Un problema quest’ultimo che può invece permanere nel paziente che risponde in maniera parziale al trattamento o che presenta una displasia grave o, ancora, che ha ricevuto tardivamente la diagnosi.

Il trattamento sarà più efficace quanto più la malformazione sarà diagnosticata precocemente, nei primi mesi di vita, poiché la capacità di rimodellare dell’articolazione coxofemorale è significativamente più elevata nel primo anno di vita rispetto agli anni successivi. Purtroppo, la displasia dell’anca si caratterizza per la sua estrema variabilità, dalle modeste alterazioni ai quadri più gravi che richiedono interventi chirurgici durante l’adolescenza e l’età infantile, e la protesi anche in età giovane-adulta».

L’artrosi secondaria

L’anca displasica operata o corretta con il divaricatore rimane comunque un’articolazione patologica, una condizione quindi che, in base al grado di alterazione anatomica, può sviluppare una precoce artrosi secondaria.

«L’artrosi è il consumo della cartilagine articolare, il quale può avvenire senza motivazione anche in un’anca sana, ma che è favorita da un’alterazione dell’accoppiamento tra la sfera della testa del femore e la cavità acetabolare che l’accoglie nel caso di displasia dell’anca», spiega il prof. Faldini.
«Tanto più le forme sono alterate quanto più precoce sarà lo sviluppo di un’artrosi secondaria e la necessità di un trattamento di artroprotesi. La chirurgia protesica per l’anca artrosica si è sviluppata per la cura, la correzione o la sostituzione di un’articolazione di forma normale.
Gli impianti protesici non sono quindi perfettamente adatti alla condizione displasica. Questo determina – tanto maggiore è il grado di alterazione a livello femorale, pelvico o di entrambi – una crescente complessità dell’intervento».

La classificazione di Crowe suddivide l’anca displasica lussata o sublussata in quattro gradi in base alla percentuale di testa del femore fuoriuscita dalla cavità acetabolare.

Una tecnica chirurgica rivoluzionaria

L’Istituto Ortopedico Rizzoli rimane un punto di riferimento a livello nazionale per la cura della displasia d’anca congenita, grazie a una lunga tradizione nel trattamento di questa patologia che ha i suoi esordi negli interventi di riduzione cruenta, nati dagli studi del prof. Putti, nei successivi studi di riduzione della displasia dell’anca del giovane e le osteotomie di centrazione con le esperienze del prof. Oscar Scaglietti, allievo di Putti, e del prof. Piergiorgio Marchetti.

Forte di questa tradizione lo IOR ha sviluppato una nuova procedura chirurgica premiata come miglior contributo scientifico nel 2020 dall’American Academy of Orthopedic Surgeons, la più prestigiosa società scientifica ortopedica chirurgica a livello mondiale. Si tratta di una tecnica innovativa e mininvasiva per la protesizzazione del paziente displasico anche di grado elevato.

«Fondendo le esperienze del prof. Putti, del prof. Scaglietti e del prof. Marchetti con le moderne tecnologie, abbiamo sviluppato un intervento chirurgico innovativo per via anteriore che permette di raggiungere l’articolazione coxofemorale affetta da anca displasica anche di grado elevato, rimuovere la testa del femore artrosica, posizionare la componente acetabolare della protesi nel paleocotile – quindi nella cavità originale – e applicare uno stelo protesico a livello femorale», spiega il prof. Faldini.

«La criticità nel trattamento protesico dell’anca displasica riguarda il riportare il centro di rotazione dell’articolazione nella sua posizione originale quindi nel paleocotile, poiché con la lussazione della testa del femore quest’ultima si posiziona più in alto nel cosiddetto neocotile.
L’approccio anteriore, consentendo di effettuare un release dosato di tutta la muscolatura – accedendo all’anca tra il tensore della fascia lata e il sartorio – permette di far scendere in modo agevole il centro di rotazione dal neocotile al paleocotile, e dominare l’anatomia patologica di questa grave deformità. Deformità che non è solo ossea ma che riguarda anche l’ipertrofia della capsula articolare e del labbro, e la retrazione del tendine del muscolo ileopsoas che impronta la capsula a clessidra.

Il poter dominare tutte queste alterazioni ha permesso di ridurre in modo considerevole il numero di complicanze. Posizionare la coppa acetabolare nel paleocotile significa fissarla nel punto del bacino a maggior riserva ossea, consentendo così la sua maggiore stabilità a lungo termine e minori rischi di mobilizzazione. Abbassare il centro di rotazione e applicare la componente acetabolare nel paleocotile consente un adeguato allineamento della componente femorale e la normalizzazione della meccanica dell’anca, offrendo un vantaggio immediato in termini di miglioramento sia della camminata sia della forza muscolare, una riduzione della zoppia. Il tutto si risolve in una maggiore autonomia del paziente».

Autonomia in tempi più brevi

«Questa tecnica chirurgica è il risultato di 15 anni di studi nel ridurre l’invasività della chirurgia protesica a livello dell’anca e diventa il fronte dell’onda della ricerca attuale», conclude il prof. Faldini.
«La divaricazione, anziché il sezionamento delle fibre muscolari consente di ridurre i tempi di convalescenza del paziente, il quale guadagnerà più rapidamente autonomia: sarà in grado lo stesso giorno dell’operazione di recarsi al bagno, il giorno successivo di salire e scendere le scale, in pochi giorni di essere dimesso ed entro un mese di tornare alla vita di tutti i giorni.
Questo consente di ridurre i tempi di ospedalizzazione abbattendo i costi sociali anche grazie a un più rapido reinserimento nell’attività lavorativa. Non dimentichiamo che i pazienti con displasia dell’anca sono tipicamente giovani e nel pieno della loro attività professionale».