Protesi di mano da stampa 3D

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(credit: Hiroshima University Biological Systems Engineering Lab)

Da anni la ricerca robotica e biomeccanica sta studiando il modo di rendere le protesi sempre più simili agli arti naturali, o a segmenti di essi, che sostituiscono, in particolare quando si tratta della mano.

Un team di ricercatori giapponesi dell’Università di Hiroshima (Furui, A. et al. (2019) A myoelectric prosthetic hand with muscle synergy-based motion de-termination and impedance model-based biomimetic control. Science Robotics) ha presentato una nuova protesi realizzata con stampa 3D capace di imparare i pattern dei movimenti effettuati da chi la indossa, in modo da aiutare l’utente stesso a svolgere le proprie azioni quotidiane.

La maggior parte delle attività che svolgiamo nel quotidiano implica l’uso delle mani. Come può una protesi imparare? Il segreto sta nell’interfaccia cibernetica che controlla la stessa protesi, elaborato dal Biological Systems Engineering Lab dell’ente giapponese: l’interfaccia è capace di utilizzare i movimenti semplici già memorizzati per effettuarne di nuovi più complessi, semplicemente leggendo il pensiero dell’utilizzatore.

Basta pensare al gesto che si vuole compiere e la protesi si muove in automatico. Ov-viamente a fare da traduttori sono degli elettrodi che misurano i segnali elettrici provenienti dai nervi attraverso la cute, in modo simile a come agisce un ECG.

(credit: Hiroshima University Biological Systems Engineering Lab)

I segnali vengono quindi inviati al computer, che decide il movimento da effettuare in soli 5 millisecondi, per poi inviare i comandi ai motori della mano. La protesi è stata testata su 7 amputati, dimostrando di effettuare movimenti precisi al 95% se semplici e al 93% se complessi.

Un altro vantaggio della protesi è che è leggera, facile da muovere ed economica da produrre.

Nonostante ciò, non è facile da indossare a lungo per tutti gli amputati perché comporta comunque un certo livello di sforzo muscolare. I ricercatori stanno cercando di risolvere questi aspetti.

Alla realizzazione dello studio hanno collaborato anche il Robot Rehabilitation Center dello Hyogo Institute of Assistive Technology di Kobe e la compagnia giapponese Kinki Gishi.

Stefania Somaré