La frattura di femore

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La frattura di femoreNella maggior parte dei casi l’indicazione per la frattura del femore è chirurgica. Oggi però le tecniche mininvasive consentono una maggiore preservazione dell’integrità delle strutture muscolari e un più pronto recupero.

La frattura del femore è un evento sempre più frequente soprattutto nella popolazione anziana.

Il dato è rilevante e preoccupante, considerato che in Europa si stimano ogni anno più di seicentomila fratture di femore, di cui dalle settantamila alle novantamila in Italia.

Questi valori, già di per sé allarmanti, sono destinati a crescere: si stima infatti che entro il 2030 saranno settecentocinquantamila i casi di fratture di femore ogni anno in Europa e un milione nel 2050. Nel mondo a quella data le fratture di femore saranno 6,3 milioni.

Dati forieri di conseguenze non trascurabili anche per i sistemi sanitari dei vari Paesi: in Italia, per esempio, l’aggravio sulle casse della sanità è di circa 4 miliardi di euro l’anno. L’indicazione chirurgica è quasi sempre necessaria in questi casi.

La chirurgia, va detto, sta progredendo grazie a nuovi materiali protesici più compatibili e duraturi, ma anche grazie a tecniche chirurgiche orientate alla mininvasività, come quella definita della “via anteriore” che da circa un anno e mezzo viene utilizzata presso l’Istituto Clinico Beato Matteo di Vigevano da parte dell’équipe di Roberto Abba, con risultati molto incoraggianti in termini sia di recupero sia estetici.

Un problema anche di assistenza all’anziano

«Le fratture di femore sono in aumento», esordisce Roberto Abba, responsabile dell’Ortopedia I dell’Istituto Clinico Beato Matteo.

Roberto Abba

«Assistiamo a un graduale ma inesorabile progredire dell’età media e dell’invecchiamento della popolazione. L’anziano è spesso solo durante le ore del giorno, manca un’assistenza adeguata, e ciò comporta cadute e fratture a seguito della maggiore vulnerabilità dell’apparato scheletrico con l’avanzare dell’età.

Le fratture mediali e laterali che interessano la zona del collo femorale sono le più frequenti. Le prime colpiscono il collo fino alla sua base e si dividono in: sottocapitate, le quali sono intrarticolari, e medio cervicali, parzialmente articolari.

Le fratture laterali, invece, comprendono fratture basicervicali alla base del collo, fratture pertrocanteriche le quali attraversano il massiccio trocanterico e fratture sottotrocanteriche localizzate inferiormente al grande e al piccolo trocantere.

Il dato preoccupante è l’elevato tasso di mortalità dei pazienti che incorrono in questi traumi, dovuto spesso alla concomitanza di altre patologie».

Approccio conservativo e chirurgico

A meno che non si tratti di una frattura composta, curabile attraverso l’allettamento, l’indicazione per le fratture di femore è sempre di tipo chirurgico.

«I vantaggi della chirurgia», prosegue Abba, «sono evidenti in tema di recupero funzionale. L’allettamento prolungato per un trattamento di tipo conservativo può essere causa di altre patologie, non ultime le lesioni da decubito.

Gli interventi all’anca, che prevedono l’impianto di un’endoprotesi, rappresentano una sfida per i chirurghi ortopedici, si tratta infatti d’interventi impegnativi sia per il medico sia per il paziente.

Proprio per questo motivo negli ultimi anni, nella comunità scientifica ortopedica, si è intensificata la ricerca di vie chirurgiche capaci di risparmiare le strutture anatomiche profonde e portare a un recupero più breve ed efficace, vie che vanno ad affiancare quelle tradizionali e consolidate, la “via laterale” e la “via posteriore”.

La nostra équipe ha sperimentato con successo negli ultimi tre anni la cosiddetta “via anteriore” per l’impianto di protesi d’anca, sia per i pazienti con artrosi, sia per i pazienti fratturati. Si tratta di una tecnica mini invasiva che, per le sue caratteristiche di minore impatto sull’anatomia del paziente, si è progressivamente diffusa ed è stata adottata da importanti centri di chirurgia elettiva in tutto il mondo».

La via anteriore

La chirurgia mininvasiva (MIS) ha come obiettivo il minor danno possibile alle strutture “nobili” del paziente.

«Con la MIS vengono annullate, per esempio, le incisioni mio-tendinee, ovvero i muscoli vengono solo divaricati, non sezionati, e vengono protette le strutture vascolari e nervose vicine all’articolazione», spiega Abba.

«La posizione in cui viene incisa la cute rende più facile l’accesso all’anca nei soggetti obesi, in particolare se posizionati sul fianco, così come il risparmio della muscolatura periarticolare porta a diminuire il rischio di lussazione dell’anca.

Si tratta di una tecnica più lunga e complessa per il chirurgo, ma che comporta indubbi benefici per i pazienti. In tutti i casi trattati abbiamo infatti notato vantaggi: minor rischio di lussazioni, minore cicatrice, minor dolore post operatorio con ridotte dosi di farmaci antidolorifici, precoce mobilizzazione attiva dell’arto, perdite di sangue ridotte, canalizzazione intestinale precoce, deambulazione immediata in carico, ridotto rischio di trombosi venosa profonda, ridotti tempi di ospedalizzazione.

Tutti questi vantaggi sono importantissimi nei pazienti anziani che sono particolarmente esposti, sia fisicamente sia psicologicamente, ai rischi di una lunga permanenza in ospedale e aumentano le possibilità di successo anche in pazienti particolarmente fragili perché affetti da demenza, alterazioni dell’equilibrio, disorientamento, anemia cronica o insufficienza renale».

La fase riabilitativa

Il percorso riabilitativo e analogo a quello delle altre vie chirurgiche.

«Il vantaggio è la possibilità di utilizzare la muscolatura più precocemente perché durante l’operazione non c’è stata alcuna lesione dei muscoli o loro ricucitura», sottolinea Abba.

«Per il resto, come gli altri operati d’anca, il paziente viene messo seduto in seconda giornata e nella terza in piedi. Con l’ausilio di un deambulatore il paziente farà i primi passi, inizierà il percorso fisioterapico con la mobilitazione passiva dell’anca con movimenti di flessione, di intra ed extrarotazione.

Passerà quindi alla doppia stampella e dopo la seconda o terza settimana verrà aggiunta la cyclette nel programma di recupero.

Doppia stampella che dovrà essere mantenuta per almeno 30-40 giorni, questo non tanto perché il paziente non riesce a camminare in autonomia, quanto per evitare qualsiasi stress all’impianto osteoprotesico che deve avere il tempo di osteointegrarsi».

L’evoluzione delle protesi

Evoluzione delle tecniche chirurgiche ma anche delle protesi nel trattamento della frattura di femore; negli ultimi anni lo sviluppo e il perfezionamento di materiali sempre più performanti ha permesso di aumentare la durata dell’impianto e la sua compatibilità.

«C’è stata sia un’evoluzione del disegno della protesi per quanto riguarda lo stelo e l’acetabolo, ma anche l’impiego di nuovi materiali», conclude Abba.

«Il titanio per esempio ha consentito una migliore osteointegrazione rispetto al cemento e il tantalio a sua volta l’ha ulteriormente migliorata rispetto al titanio, la ceramica che viene utilizzata nella testa femorale denota un ottimo rendimento.

Si sono evoluti anche i polietileni che in passato qualche problema lo davano in termini di rilascio di sostanze scatenanti reazioni infiammatorie all’articolazione.

Il futuro della chirurgia d’anca è in lenta ma continua evoluzione, oggi la chirurgia MIS è lo stato dell’arte, una tecnica efficace ma sicuramente perfettibile».

Giulia Agresti