Artroprotesi d’anca, ora anche “micro”

Artroprotesi d'anca, ora anche "micro"La tecnica micro-invasiva per l’artroprotesi dell’anca consente recuperi funzionali molto rapidi, perdite ematiche ridotte e sensibile riduzione del dolore nel post-operatorio. Una tecnica che si inserisce nel quadro della rapid recovery.

L’artroprotesi d’anca è sicuramente tra gli interventi chirurgici più eseguiti al mondo. Soltanto nel nostro Paese si stimano circa centomila interventi l’anno.

Numeri che sono in continua crescita, da una parte perché la patologia a carico di quest’articolazione è sempre più diffusa a causa dell’invecchiamento della popolazione, dall’altra perché i nuovi materiali e le moderne tecniche operatorie rendono l’indicazione chirurgica sempre più efficace.

Numeri tali da richiamare l’interesse di tutti i sistemi sanitari mondiali per un’analisi più approfondita dei costi e le possibili alternative per ridurli.
In quest’ottica, la tecnica messa a punto da Gianluca Cusmà, responsabile dell’Unità Operativa di Chirurgia Ortopedica Mininvasiva dell’Istituto di Cura Città di Pavia, consente di accorciare sensibilmente i tempi di degenza e un recupero funzionale da parte del paziente molto rapido.

Artrosi e fratture

«La protesi d’anca risolve due diverse tipologie di problemi a carico di questa articolazione», spiega Gianluca Cusmà.
«La prima è l’artrosi, quindi l’usura che può essere legata all’invecchiamento (artrosi primitiva o primaria) o a forme patologiche che alterano la geometria dell’articolazione portando all’usura (artrosi secondaria).

Gianluca Cusmà

Tra le forme patologiche possiamo ricordare la displasia dell’anca, l’epifisiolisi, il morbo di Perthes, ma anche il conflitto femoro-acetabolare, una patologia di recente scoperta, che a seguito di una non corretta meccanica articolare impedisce l’esecuzione di determinati movimenti nel giovane e sfocia in una vera e propria artrosi nell’anziano.

La seconda problematica è, invece, di tipo traumatico ed è legata a fratture del collo del femore.

Se in passato l’artroprotesi d’anca riguardava principalmente l’anziano, oggi, grazie a diagnosi più tempestive e alla notevole evoluzione dei materiali protesici, interessa pazienti giovani, finanche il cinquantenne che grazie all’intervento potrà significativamente cambiare la propria qualità di vita».

L’evoluzione dei materiali

«Tutti i materiali relativi alle protesi d’anca, si sono evoluti negli ultimi anni, sia quelli a contatto con l’osso sia quelli che compongono il vero e proprio snodo», continua Cusmà.
«Ricordo che la protesi d’anca è costituita da diversi componenti alcuni fissi, altri articolati. Se per le parti fisse ci si è concentrati sull’osteointegrazione al fine di assicurare l’ancoraggio, per le parti mobili si è lavorato sulla riduzione e la maggiore resistenza all’attrito grazie a superfici più lisce e tenaci.

I nuovi polietileni addizionati di vitamina E garantiscono una resistenza all’attrito molto superiore rispetto al passato, la ceramica di oggi sembra finalmente affidabile e molto più sicura nei confronti della rottura. Nonostante i progressi, è pur vero che il materiale ideale non esiste o non è ancora stato inventato.

Sarà il chirurgo che dovrà individuare la soluzione protesica più indicata in funzione del paziente, diversa per design, tipologie di materiali e quant’altro: è un paziente giovane o anziano? Quale attività svolge? Qual è il suo quadro clinico? Qual è la sua corporatura, è sovrappeso, è sottopeso? Quali sono le sue esigenze in termini di funzionalità?

Nel caso del giovane sportivo, il tipo di protesi sarà diverso se praticherà snowboard piuttosto che la corsa, poiché i gesti atletici saranno del tutto diversi, anche le probabilità di subire traumi e i picchi di carico saranno diversi.

Se in passato il paziente si limitava a chiedere la cessazione del dolore, oggi vuole il pieno recupero funzionale delle abilità motorie, una sfida per il chirurgo e per le aziende biomedicali, ma anche un impulso a crescere e a sviluppare soluzioni sempre più performanti».

Quale tecnica? Dipende dal caso clinico

Diverse sono oggi le tecniche chirurgiche dedicate all’artroprotesi dell’anca. «Le tecniche di cui oggi il chirurgo dispone sono tutte valide e applicabili con risultati eccellenti, da quelle anteriori alle anterolaterali, fino alle posterolaterali», continua Gianluca Cusmà.

«Sconsiglierei invece la laterale diretta, una tecnica ormai desueta, trans-muscolare, che arreca danno alla muscolatura che muove l’anca.

Si tratta di tecniche che il chirurgo deve conoscere e sapere utilizzare, scegliendole in relazione al caso clinico specifico. Sono comunque tutte tecniche che richiedono di fare uscire la testa del femore dalla sua sede, quindi richiedono una lussazione dell’anca.

Invece, con la tecnica micro-invasiva (ideata dallo statunitense Jimmy Chow, che porta il nome di SuperPath® e l’ho personalmente modificata intersecandola con la tecnica Femoral Reference, bandiera della scuola del professor Guido Grappiolo, di cui mi pregio di essere stato allievo) la lussazione non è necessaria.

Ciò permette un recupero immediato del tono muscolare che non subisce stress (a causa della torsione) durante la manovra: il paziente potrà per questo mettersi in piedi a sole 4-6 ore dall’intervento.

Altra peculiarità e unicità di questa tecnica riguarda la capsula articolare la quale viene preservata anteriormente e posteriormente, garantendo la stessa stabilità dell’anca pre operatoria.

Ora se il paziente desidera o necessita per lavoro/sport avere ampio raggio di movimento dell’anca (accovacciarsi, yoga, arti marziali, motociclismo, sci) non ha restrizioni precauzionali di sorta.

La micro invasività tissutale, infine, si riflette positivamente sulle perdite ematiche che sono diventate irrisorie rendendo questa tecnica auspicabile nel paziente anziano o debilitato».

Il recupero è rapido

«Ho già eseguito in Italia quaranta impianti di protesi di anca con questa tecnica, a Roma, Milano e Pavia, con risultati sorprendenti dal punto di vista delle perdite ematiche (mediamente 100 ml) e delle “impressioni” dei pazienti che riferiscono forza e tono invariati rispetto al preoperatorio», ricorda Cusmà.

«I risultati radiografici sono sovrapponibili a quelli che ottengo con la mia consueta tecnica che richiede tuttavia di lussare l’anca. La tecnica micro-invasiva non è comunque adatta a tutti i pazienti.
È ottimale per quelli che hanno un residuo di capacità di rotazione interna, quindi con artrosi di grado medio; diciamo circa una decina di gradi di capacità di rotazione interna dell’anca al fine di poter posizionare correttamente il paziente sul tavolo operatorio come la tecnica richiede: in intrarotazione dell’arto.

Se sul lungo periodo, come indica la letteratura scientifica, questa tecnica dà risultati analoghi alle altre, nell’immediato post operatorio le cose cambiano notevolmente: il paziente non sanguina, dopo quattro ore dalla chirurgia il paziente cammina, a tre giorni dall’intervento sale le scale e può essere dimesso dall’ospedale anziché essere spostato in altro reparto per la riabilitazione.

Quindi recuperi molto rapidi: dopo un mese il paziente abbandona le stampelle, può guidare la macchina e a due mesi dall’intervento può tornare all’attività normale».

Anche la riabilitazione dopo chirurgia micro-invasiva è diversa rispetto all’intervento standard.
«Dopo le dimissioni che avvengono, come detto, a soli tre giorni dall’intervento, il paziente gestirà in autonomia gli esercizi di riabilitazione. Il fisioterapista si limiterà a supervisionare il lavoro in regime ambulatoriale una volta a settimana.

Esercizi che il paziente avrà appreso nel pre-operatorio come indicato nel cosiddetto percorso di rapid recovery, una disciplina medica peri-operatoria che ha l’obiettivo di accelerare i tempi di recupero del paziente.

Secondo questa strategia la fase preoperatoria è fondamentale e sarà dedicata alla preparazione psicologica del paziente e alla demolizione sistematica di quelle che sono le sue paure, al dialogo con il familiare di riferimento, all’abbattimento delle barriere architettoniche a casa, all’addestramento all’uso delle stampelle.

Pensiamo a questo proposito all’anziano che deve apprendere il loro utilizzo nell’immediato post operatorio con un’articolazione dolente. Grazie alla rapid recovery il paziente potrà avere un ruolo attivo e non più passivo nel suo percorso riabilitativo.
La chirurgia micro invasiva è uno dei tasselli della medicina perioperatoria ma non unico, sarebbe un errore pensare che tutto sia nelle mani del chirurgo».

Elisa Papa