Fratture sovracondiloidee dell’omero, intervenire per correggere

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Secondo le linee guida della Società Italiana di Traumatologia e Ortopedia Pediatrica, le fratture sovracondiloidee dell’omero sono la più diffusa lesione scheletrica del gomito in età pediatrica. La loro incidenza è elevata dai 5 ai 7 anni d’età. La causa è nel 98% dei casi «un trauma accidentale per caduta dall’alto».

Tra i meccanismi traumatici prevale «la caduta con polso e gomito in estensione e avambraccio in pronazione», quindi con «gomito in condizione di blocco articolare» e «lo scarico delle forze che si esplica sulla paletta omerale».

Le fratture sono invece causate da caduta con gomito in flessione solo nel 2% circa dei casi. La classificazione di Gartland consente di inquadrare la frattura «e più precisamente la scomposizione dei frammenti» in tre tipi.
Il primo è dato dalla frattura composta, il secondo da quella «scomposta, ma con corticale posteriore integra», il terzo, infine, da frattura scomposta senza contatto fra i monconi, alternativamente in direzione postero-mediale o postero-laterale.

Le fratture sovracondiloidee dell’omero possono generare complicanze immediate o tardive. Fra le immediate, l’eventuale lesione dell’arteria brachiale e la lesione dei tronchi nervosi periferici del gomito.
Fra le tardive, la rigidità articolare, talora innescata da consolidazione imperfetta, e in secondo luogo il cubito varo, deformità in cui il varismo della paletta omerale è associato a intrarotazione e iperestensione.

Cause del varismo

«Il cubito o gomito varo post traumatico», spiega Fabio Verdoni, responsabile dell’Unità Operativa di Ortopedia Pediatrica dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, «è fra le conseguenze tipiche di una frattura sovracondiloidea dell’omero, appena sopra il punto di giunzione con radio e ulna, in soggetti dall’età pediatrica alla preadolescenza.
Riguarda quindi una struttura particolarmente complessa, quale il gomito, responsabile di movimenti di pronazione, flessione, rotazione, supinazione ed estensione.
Un ulteriore elemento di difficoltà è dovuto al fatto che a essere interessata è la fisi o cartilagine di accrescimento che non resiste ai traumi diretti o indiretti che determinano distacco delle ossa».

Come detto, le fratture si presentano in forma composta o scomposta e nel primo caso un trattamento di ordine conservativo basato sulla semplice immobilizzazione dell’arto mediante stecca gessata è la scelta privilegiata e garantisce outcome soddisfacenti.
Al contrario, se la frattura è scomposta, si procede a un intervento chirurgico, con paziente in anestesia generale o plessica e riduzione e sintesi della frattura mediante fili di Kirschner.

«Il distacco epifisario interessa una parte di cartilagine fertile, il cui sviluppo è ancora pienamente in corso.
Questo si accompagna al rischio di una saldatura prematura e quindi di crescita asimmetrica o bloccata, che si ha quando la paletta omerale si salda in direzione rivolta verso l’esterno o verso l’interno: il gomito tende perciò a deviare in varo o in valgo».

Quando e come intervenire

Quello del cubito varo è un fenomeno tutt’altro che infrequente e anzi, secondo quanto riportato dal dott. Verdoni, «la sua incidenza è pari al 30% circa delle fratture da distacco sovracondiloideo dell’omero».

Trattandosi di un’eventualità relativamente probabile, e vista l’età dei pazienti, «informare i familiari dei pericoli che potrebbero associarsi a una frattura è importante», nonostante non sempre il ricorso alla chirurgia sia strettamente necessario.
«Se la mobilità dell’articolazione si conferma su livelli accettabili si può soprassedere. Se invece la deviazione in varo è pari o superiore a 20 gradi, l’intera biomeccanica (prono-supinazione e flesso-estensione) va salvaguardata».

L’intervento consta di una osteotomia che permette «di comparare l’assetto controlaterale del gomito e correggere il difetto».

Successivamente la frattura può essere ridotta e sintetizzata con fili di Kirschner e l’arto del soggetto immobilizzato con gesso. Essenziale è, però, la tempestività, sia in sede di identificazione e risoluzione del danno sia per quel che concerne l’inizio del percorso di fisioterapia.

«Quest’ultimo deve prendere il via a ridosso dei trenta-quaranta giorni previsti di immobilizzazione, a seguito della rimozione del gesso o dei fili di Kirschner. È di tipo attivo, quindi con la piena collaborazione del paziente; o passivo, dunque con una mobilità indotta o forzata. Si prevedono due sedute la settimana di trattamento, per un mese, e la pratica del nuoto è consigliata».

Il contributo dell’imaging

I passi in avanti compiuti dalle tecnologie diagnostiche di imaging e in particolare della risonanza con ricostruzioni tri-planari, garantiscono ai clinici un supporto molto prezioso poiché superano, chiaramente, i limiti insiti nelle tradizionali radiografie.

«Con i raggi x si può ottenere una chiara visione dell’osso, ma non della cartilagine. Con una risonanza magnetica si ha invece la possibilità di analizzare lo stato della saldatura, le eventuali deviazioni dall’asse e – quel che è più importante – la cartilagine di accrescimento residua prima di decidere se intervenire o meno.
La tendenza attuale è a un intervento precoce, anche perché più lungo è il tempo di attesa e superiori sono le probabilità di eventi avversi, fra i quali la formazione di ponti ossei o complicanze assiali».

La scelta delle procedure, nel caso delle fratture sovracondiloidee dell’omero, dipende largamente dall’approccio adottato dai clinici e chirurghi, dall’esperienza degli ortopedici e, per quanto meno battuta, è ancora praticabile nelle acuzie la strada della trazione trans-scheletrica.

In generale, le diffuse fratture da sovraccarico sono sovente connesse all’iperlassità, all’iperestensione del gomito e alle cadute sul palmo aperto della mano.
Oltre a quelle brevemente menzionate più su, il ventaglio delle complicazioni include anche la compressione dell’arteria radiale che è suscettibile di far sorgere danni neurologici anche irreversibili dei quali soffre la mano stessa.

È questo il caso della sindrome o contrattura di Volkmann: «nell’eventualità di una frattura scomposta, il flusso del sangue non scorre correttamente e l’arteria radiale risulta compressa, sfociando in ipossia e necrosi avascolare a carico della muscolatura.

I muscoli subiscono una fibrotizzazione con il rischio di un deficit permanente a danno delle dita e del polso».