Ulcere e lesioni da protesi? La soluzione potrebbe essere nei piedi

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Il mondo della ricerca protesica è rivolto principalmente a migliorare la qualità delle protesi e la loro interconnessione con il sistema nervoso e muscolare dell’amputato, il tutto per riuscire a renderlo più autonomo e migliorare la qualità del movimento.

Esistono però altre questioni da modificare, in particolare l’interfaccia tra la protesi e il moncone: il 75% degli amputati andrebbe infatti incontro a lesioni, ulcere e dolorose lacerazioni della cute.
In una recente intervista, la dottoressa Claire Higgins del Dipartimento di Bioingegneria dell’Imperial College di Londra ha ricordato che la cute delle braccia e delle gambe non è fatta per sostenere il peso del corpo e nemmeno per sopportare la continua frizione con l’invaso della protesi.
Eppure, è proprio questa la natura della cute del moncone.

Colin Boyle mentre prepara il test biomeccanico

Insieme al collega Colin Boyle ha così pensato di studiare nel dettaglio la pelle della pianta del piede per carpirne tutte le caratteristiche e provare poi a trasferirle alla cute del moncone.

La prima evidente caratteristica è lo spessore, seguita dalla resistenza. Attraverso una serie di analisi computazionali, i ricercatori hanno stabilito che il principale protettore della pelle del piede è lo strato corneo, che qui è molto più spesso rispetto al resto del corpo (fino a 16 volte di più).

Un’altra scoperta è che non è solo lo spessore a rendere la cute del piede resistente alle ulcerazioni, ma il modo in cui collagene e cheratina sono disposti al suo interno.
Più nel dettaglio, il derma dei piedi contiene più cheratina e più tipi di cheratina e presenta fasci di collagene più spessi.

Infine, nella cute del piede vi sono più digitazioni tra epidermide e derma.
Nel loro studio (Colin J. Boyle et al. Morphology and composition play distinct and complementary roles in the tolerance of plantar skin to mechanical load. Science Advances. Volume 5, numero 10) i ricercatori hanno preso vari campioni di cute da uno stesso paziente, ma da diverse parti del corpo, li hanno congelati per poi sezionarli e ottenerne delle immagini.
Hanno poi studiato i campioni in vario modo e i risultati sono più o meno quelli già presentati.

Non resta che chiedersi come trasferire queste caratteristiche al moncone.
In un’intervista, Higgings suggerisce che si potrebbero utilizzare tecniche di medicina rigenerativa che siano però in grado di indurre i cambiamenti necessari a rendere il moncone più simile alla pianta del piede.
Al momento questa è un’indicazione che può favorire ricerche più dettagliate.

Stefania Somaré