L’ernia del disco è una patologia benigna che può però diventare altamente invalidante, provocando dolore molto intenso e costringendo il paziente al riposo, il che innesca spesso un peggioramento della patologia dolorosa.
Secondo i dati della Società Italiana di Ortopedia e Traumatologia, l’incidenza dell’ernia del disco si aggirerebbe tra il 20% e il 40% per le ernie contenute che non danno sintomatologia e tra l’1% e il 18% per quelle espulse.
Si tratta di una percentuale abbastanza elevata da conferire al problema una componente sociale.
Come se ciò non bastasse, anche dopo l’intervento chirurgico è possibile vi siano recidive, la cui probabilità cresce negli anni con incidenza del 2-3% per le recidive precoci e del 10% per quelle successive.
Le ernie più comuni sono quelle della zona lombare, ma si possono presentare lungo tutta la colonna. Dagli USA arriva una possibile soluzione: l’uso di un dispositivo di recente approvazione da parte della FDA che si propone di impedire al disco già operato di fuoriuscire nuovamente dal proprio spazio.
Il device si chiama Barricaid® Anular Closure Device (https://www.fda.gov/medical-devices/recently-approved-devices/barricaidr-anular-closure-device-acd-p160050) e si compone di una parte in titanio che viene inserita all’interno del corpo vertebrale e di una schiuma fatta di un polimero flessibile intrecciato, tipo PET.
La schiuma dovrebbe chiudere lo spazio disponibile tra le due vertebre e impedire così al disco di fuoriuscire. Il device è stato testato per la prima volta in California nei giorni scorsi, presso il sistema Stanford Health Care.
A beneficiarne, una donna di 55 anni con un’ernia estrusa che schiacciava le innervazioni, provocandole un dolore insopportabile e continuativo al polpaccio e al piede. Sottoposta al primo intervento di dischectomia, dopo due mesi il dolore era tornato. La donna era incorsa in una recidiva, un fenomeno che i ricercatori della Stenford Medical studiano da oltre 10 anni. Negli anni il team di Eugene Carragee, professore in chirurgia ortopedica dell’Istituto californiano, ha videoregistrato circa 300 procedure di dichectomia tramite un microscopio, annotando la dimensione e la forma del buco e il difetto che aveva provocato la protrusione. Tutti i pazienti sono stati poi seguiti per più di 5 anni.
Ciò che hanno scoperto è che le recidive si verificano soprattutto nei pazienti con i difetti o i buchi più grandi: riuscire a identificarli subito potrebbe migliorare gli esiti del primo intervento.
Il device è stato approvato per un uso in secondo intervento, ma un domani la sua indicazione potrebbe essere estesa anche al primo intervento in pazienti selezionati.
Stefania Somaré