Circa 1-2 bambini ogni 1000 nati vivi sviluppa paralisi cerebrale infantile (PCI), termine con il quale si definisce una serie di disturbi neurologici determinati da una lesione cerebrale, non progressiva, verificatasi nel grembo materno, alla nascita o nelle settimane successive.
L’incidenza cresce tra i nati pretermine o con peso inferiore ai 1500 grammi.
Ogni anno in Europa si registrano circa 15.000 nuovi casi. I sintomi principali della PCI sono difficoltà di movimento e di mantenere una postura corretta; a questi si possono affiancare, a seconda della sede della lesione, disturbi sensoriali, per lo più visivi, cognitivi ed emotivi.
A volte la patologia tocca anche la deglutizione. Circa il 35% di questi soggetti sviluppa una displasia spastica dell’anca che può, a sua volta, determinare una lussazione o sublussazione. Data la rigidità tipica di una muscolatura spastica, inoltre, l’anca continua comunque a risalire verso il bacino, determinando un forte attrito che porta dolore e limita i movimenti della parte.
Tra i pazienti con PCI, quelli maggiormente a rischio sono coloro che hanno un livello IV o V di Gross Motor Function Classification System (GMFCS), indice utilizzato per valutarne la capacità di movimento: nel primo caso il rischio è del 69%, mentre nel secondo dell’89%.
L’intervento chirurgico è spesso la scelta terapeutica più adeguata, sia per prevenire la lussazione che per ripararla, un atto che deve rispondere alle specifiche esigenze del paziente. Purtroppo, date le condizioni generali di questi bambini, è abbastanza frequente che si verifichino complicanze, anche nel medio e lungo termine: tra le più comuni, ossificazione eterotopica, osteonecrosi, migrazione prossimale del femore, ulcere da decubito e fratture da insufficienza.
Uno studio condotto dal Dipartimento di Chirurgia Ortopedica e da quello di Pediatria della Icahn School of Medicine del Mount Sinai, a New York, analizza le cause di ricovero prolungato e riammissioni ospedaliere che avvengono entro 90 giorni dall’intervento e carce di evidenziarne i fattori di rischio.
Basato sui dati contenuti nello statunitense Nationwide Readmissions Database (2014–2018), il lavoro valuta 1225 casi di intervento per displasia dell’anca per altrettanti pazienti con PCI, il 26.3% dei quali è stato in ospedale per più di 5 giorni e il 14.2% è stato riammesso entro 90 giorni.
Età media del campione, 9.3 ± 3.8 anni. Lo studio definisce un tasso di complicanze generali, pari al 5.5%, percentuale che cresce nei soggetti seguiti nell’ambito del programma federale sanitario Medicaid perché appartenenti a famiglie povere, o comunque disagiate.
I fattori di rischio principali che possono aiutare i clinici a individuare i soggetti che potrebbero necessitare di ricoveri prolungati e che potrebbero tornare in seguito al ricovero sono i medesimi: presenza di aritmie cardiache e anemia sideropenica.
Nel complesso, questo lavoro sottolinea l’importanza di dare accesso sanitario a tutti i bambini con PCI, per poterli seguire al meglio e stabilire quali necessitano di un intervento all’anca.
Negli Stati Uniti non esiste un vero e proprio sistema sanitario universalistico; quindi, è più facile che chi non ha disponibilità economica fatici a farsi curare, ma anche in Italia ci sono disparità di accesso per molte patologie, ancora più oggi che la nostra sta divenendo una società multirazziale. Il messaggio è: non lasciarne indietro nessuno.
(Lo studio: Butler LR, Dominy CL, White CA, Mengsteab P, Lin E, Allen AK, Ranade SC. Risk factors for 90-day readmission and prolonged length of stay after hip surgery in children with cerebral palsy. J Orthop. 2023 Mar 2;38:14-19. doi: 10.1016/j.jor.2023.03.002. PMID: 36925762; PMCID: PMC10011680)