La riabilitazione robotica guadagna sempre più consensi in ambito clinico. Molti studi sperimentali ne dimostrano l’efficacia in specifici campi d’intervento, tra i quali quello neurologico è il più significativo. L’esperienza della Fondazione Don Gnocchi dove l’impiego dei robot avviene ormai quotidianamente in pazienti affetti da deficit di forza e di performance dell’arto superiore.
La tecnologia robotica si sta diffondendo sempre più in ambito riabilitativo e sono numerosi gli studi in letteratura che ne attestano l’efficacia. Ovviamente, anche questo approccio terapeutico deve essere valutato dagli operatori, che devono saper scegliere lo strumento più adeguato per il caso che si trovano ad affrontare. Come dire che non è sufficiente dotarsi di un robot riabilitativo: è probabile che servano vere e proprie palestre robotiche, con più dispositivi in grado di offrire il massimo vantaggio a ognuno dei pazienti da riabilitare, anche a seconda della parte del corpo che deve essere riabilitata.
Pochi sono, per il momento, i centri che utilizzano queste tecnologie di routine nei percorsi di riabilitazione, ma la riabilitazione robotica è destinata a un ruolo sempre più importante in futuro, come testimonia l’esempio della Fondazione Don Gnocchi, che ha dotato molti suoi centri di innovativi sistemi robotici per il trattamento dei pazienti sia in regime di ricovero sia in regime ambulatoriale, convenzionati o meno con il SSN.
Irene Aprile, medico neurologo e coordinatrice del Gruppo di Riabilitazione Robotica e Tecnologica della Fondazione Don Gnocchi: «è importante utilizzare i robot giusti a seconda dell’obiettivo terapeutico da raggiungere: il set utilizzato nelle palestre robotiche della Fondazione Don Gnocchi è stato scelto, infatti, proprio per rispondere alle differenti situazioni che riguardano la disabilità a carico dell’arto superiore, che sia il deficit della spalla, della mano o dell’intero arto».
Tali considerazioni vengono tanto dalla pratica clinica, quanto da un recente studio condotto su 250 pazienti e 11 centri afferenti alla Fondazione stessa, nei 9 dei quali si sono utilizzati appositi macchinari per verificare l’efficacia della riabilitazione tramite robot nel recupero dell’arto superiore in pazienti affetti da ictus. I risultati di questo studio sono stati presentati di recente a Roma nel corso del convegno “La tecnologia e la robotica in riabilitazione”, patrocinato dalla Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa (Simfer) e dalla Società Italiana di Riabilitazione Neurologica (Sirn).
Lo studio
L’Irccs Santa Maria Nascente di Milano, l’Irccs Don Carlo Gnocchi di Firenze, Santa Maria della Pace e Santa Maria della Provvidenza di Roma e il Centro di Rovato (BS), quello di La Spezia, di Fivizzano (MS), di Sant’Angelo dei Lombardi (AV) e di Acercenza (PZ): questi i nove centri della Fondazione Don Gnocchi che hanno partecipato allo studio. Da sottolineare la presenza di due centri del Meridione, territorio di solito penalizzato dal punto di vista delle prestazioni sanitarie ad alta tecnologia per ragioni anche economiche.
«In tutte queste strutture», racconta Irene Aprile, «sono state attrezzate apposite palestre robotiche dove la migliore tecnologia oggi disponibile si sposa con la professionalità e l’esperienza di operatori appositamente formati. In questi centri sono stati reclutati in soli 18 mesi ben 251 pazienti affetti da ictus con necessità di riabilitare l’arto superiore e, più in dettaglio, mano, polso, gomito e spalla: 127 pazienti sono stati sottoposti a trattamenti robotici e 124 a trattamenti tradizionali.
È poi importante sottolineare che la riabilitazione robotica nei diversi centri è stata preceduta da eventi formativi volti ad addestrare adeguatamente i terapisti e a uniformare la modalità e i protocolli di trattamento. Il tutto tenendo conto che i sistemi robotici non possono essere messi nelle mani di terapisti inesperti: a tale proposito, sta nascendo una nuova figura, il terapista della riabilitazione robotica, l’unico in grado di valorizzare le potenzialità della tecnologia sfruttando il proprio background riabilitativo, adattandolo ai singoli casi e alle singole situazioni, sfruttando a suo favore l’aiuto che questi sistemi possono dare affinché il paziente venga riabilitato nel miglior modo possibile».
Perché uno studio possa essere forte è necessario che vi sia un gruppo di pazienti di controllo. Oltre ai nove centri hanno partecipato allo reclutamento multicentrico dei pazienti i due Centri Don Gnocchi di Marina di Massa e Tricarico (MT) raggiungendo un totale di pazienti reclutati ne multicentrico di 260 pazienti.
I campi di applicazione
«Nella riabilitazione neurologica, nell’ambito, quindi, di tutte le disabilità conseguenti a patologie neurologiche del sistema nervoso centrale la robotica trova la sua massima espressione. Queste patologie – dal Parkinson alla sclerosi multipla, all’ictus – hanno un impatto sull’equilibrio, sulla deambulazione, sull’uso degli arti superiori, sulla coordinazione, problemi sui quali si può lavorare efficacemente con il robot durante il percorso riabilitativo», esordisce Irene Aprile. «La riabilitazione robotica trova anche applicazione in malattie neurologiche meno frequenti ma altamente invalidanti, come le malattie del sistema nervoso periferico – le polineuropatie – le malattie muscolari come la SLA, e in molti problemi di tipo ortopedico i quali possono determinare limitazioni articolari.
Pensiamo, per esempio, a una protesi di spalla che determina una limitazione funzionale nell’utilizzo dell’arto superiore o a una frattura trattata chirurgicamente con un deficit deambulatorio temporaneo che non consente al paziente di caricare l’arto inferiore».
I risultati
Nel corso dello studio è stato possibile osservare è l’utilità effettiva della robotica in ambito riabilitativo. Lo conferma Irene Aprile: «lo studio ha dimostrato che la riabilitazione robotica e tecnologica – ovviamente eseguita con un set di sistemi scelti in modo rigoroso e scientifico da un’équipe multidisciplinare all’interno della Fondazione stessa – è efficace nel recupero della motilità dell’arto superiore e della disabilità globale del paziente, misurate con scale cliniche».
In particolare la robotica è più efficace delle terapie tradizionali nel recupero di alcuni movimenti come quelli di presa della mano, di flessione dell’avambraccio e di abduzione della spalla.
«Lo studio», riprende Irene Aprile, «ha poi dimostrato che i pazienti trattati con riabilitazione robotica tendono a sviluppare meno spasticità al gomito rispetto a quelli trattati con metodiche tradizionali. Questo aspetto non è affatto irrilevante, se si considera che la spasticità può essere un’importante complicanza nei pazienti post ictus che può arrivare a intralciare in modo significativo il recupero motorio dell’arto superiore».
Questi sistemi forniscono, inoltre, un importante mezzo di misurazione, fornendo dati di outcome che permettono il monitoraggio dei risultati conseguiti all’interno del percorso riabilitativo del paziente.
Su una parte del campione oggetto dello studio, è stata eseguita una valutazione strumentale con i robot utilizzati per il trattamento, che ha mostrato come le performance motorie dell’arto superiore dei pazienti trattati con la robotica sono più veloci rispetto alle performance dei pazienti trattati con la terapia tradizionale.
Vi è poi un altro aspetto importante: la pratica clinica svolta alla Fondazione Don Gnocchi, dove la riabilitazione robotica è ormai di casa, ha messo in evidenza ricadute positive anche sulla riabilitazione di pazienti con patologie differenti dal post ictus, sia afferenti al Sistema Nervoso Periferico, come la polineuropatie, che al Sistema Nervoso Centrale, come sclerosi multipla e la malattia di Parkinson.
Ricordiamo che patologie come la polineurite colpiscono acutamente anche soggetti giovani, portando a un’importante compromissione sia degli arti superiori che inferiori.
Trovare un modo per favorire il recupero di questi pazienti o ritardarne il peggioramento potrebbe essere di grande importanza. Anche per il carico sociale che questi pazienti hanno. Quelli riportati dallo studio della Fondazione Don Gnocchi sono risultati davvero interessanti, che fanno pensare a un futuro radioso per la riabilitazione. Un futuro quasi fantascientifico. Un limite potrebbe forse venire dai costi di questi macchinari.
Rendere la riabilitazione robotica accessibile a tutti
«Quando abbiamo attrezzato le palestre robotiche per lo studio, siamo stati attenti a selezionare sistemi che permettano di utilizzare un modello organizzativo economicamente sostenibile e in grado di rendere la robotica accessibile al maggior numero di pazienti possibile, anche mediante il Servizio Sanitario Nazionale».
Quindi è possibile attrezzarsi per poter riabilitare anche chi non può permettersi di pagare di tasca propria, ma vi è un’altra questione da considerare: perché sia efficacie, la riabilitazione può necessitare di essere portata a casa.
Ciò permetterebbe anche di abbattere i costi legati alla permanenza in struttura dei pazienti.
Ciò potrebbe accadere in un futuro non troppo lontano, come conferma Irene Aprile: «gli scenari prefigurano un futuro contraddistinto da robot portatili e utilizzabili anche al proprio domicilio, anche se al momento è bene rivolgersi alle strutture, purtroppo ancora poche, dotate non solo di robotica e di tecnologia, ma anche di terapisti e medici con adeguata esperienza nel campo della riabilitazione robotica, come quella maturata nei nostri centri».
Si può quindi affermare che, come in altri ambiti della medicina e della nostra vita, la tecnologia apre la strada a vere e proprie rivoluzioni.
In questo caso si può parlare di “rivoluzione della riabilitazione”.
Una rivoluzione che, per essere sostenuta e per fiorire, necessita però dell’intervento di tutti gli attori in gioco: chi opera nell’ambito riabilitativo, che deve impegnarsi in ricerca traslazionale, cercando di portare velocemente i risultati degli studi in corsia; le istituzione e le imprese, che a loro volta devono favorire il processo di cambiamento e collaborare con gli istituti che fanno ricerca per individuare soluzioni robotiche sostenibili economicamente e alla portata dei pazienti.
Un ruolo importante hanno poi i singoli professionisti sanitari, dai medici ai fisioterapisti, che possono e devono essere sempre più capaci di utilizzare sistemi robotici o di conoscerne l’azione e l’utilità per poter consigliare al meglio i propri assistiti.
Si apre quindi una nuova era di studio, ricerca e innovazione.
Spinta da queste trasformazioni nasce poi l’esigenza di creare una nuova figura professionale: il terapista della riabilitazione robotica. Ne abbiamo accennato più sopra. Ora cerchiamo di approfondire.
Il terapista della riabilitazione robotica
Fino a oggi, a parte qualche rara eccezione, la riabilitazione robotica è stata confinata nel perimetro della ricerca, una situazione necessaria per dare peso e importanza a questo tipo di trattamento attraverso numeri e misurazioni oggettive.
I tempi sono però oramai maturi perché questo genere di prestazioni vengano portate nei centri di riabilitazione italiani e offerti ai pazienti che ne hanno bisogno.
Un po’ come sta accadendo nei centri della Fondazione Don Gnocchi.
E così, se prima era sufficiente formare all’uso di uno o più sistemi robotici i terapisti coinvolti nella ricerca, ora è di primaria importanza avere terapisti abili con i sistemi robotici, da poter mettere in campo con i pazienti più disparati.
«Ci siamo accorti che il training fornito dalle aziende che vendono i sistemi robotici è solo il primo passo verso una capacità vera di utilizzo. Secondo la nostra esperienza, a questa fase deve poi seguire un vero e proprio processo di formazione in affiancamento a riabilitatori robotici esperti. Secondo le nostre stime», spiega Irene Aprile, «sono richieste almeno 15 ore di affiancamento passivo, per vedere come un esperto utilizza il sistema robotico, cui si aggiungono almeno 15 ore di utilizzo in supervisione.
I sistemi robotici offrono una gamma enorme di possibilità riabilitative e per poterle fare proprie è richiesta molta applicazione. Si possono paragonare a delle Ferrari: in mano a un pilota di Formula 1 danno il massimo possibile. In mano a una persona qualunque si limitano a portarla in giro».
Il vero potere del sistema robotico sta infatti nella possibilità di variare alcuni parametri per rendere la riabilitazione assolutamente specifica per il singolo paziente: scegliere il tipo di realtà virtuale, il tipo di esercizio, il livello di assistenza da parte del robot al movimento, l’inerzia che il robot deve opporre al paziente.
Queste sono solo alcune delle azioni che un terapista che voglia aprirsi al nuovo mondo della robotica deve imparare a fare.
«La qualità prima di un terapista che volesse avvicinarsi a questo ambito è l’apertura mentale, la curiosità e anche, in un certo senso, la creatività. Nella nostra esperienza ci siamo accorti», prosegue Irene Aprile, «che a volte bisogna osare, provare nuove vie anche con i sistemi robotici.
In questo modo si riesce ad aiutare pazienti che altrimenti non uscirebbero mai dalla loro situazione. Altro aspetto importante è la necessità di imparare a leggere i dati oggettivi di misurazione delle performance che il robot dà alla fine di ogni sessione di lavoro.
Sono proprio questi dati a dire al terapista se le scelte fatte sono adeguate o meno e se è il caso di modificare il percorso terapeutico messo in atto. Gli stessi dati possono dire al medico curante, che sia ortopedico, neurologo e così via, se il paziente sta migliorando o meno e in che misura».
Al momento non esistono corsi per formare questi terapisti, ma secondo Irene Aprile dovranno nascere master o corsi di specializzazione, perché il mondo della tecnologia corre veloce e il rischio è di trovarsi ad avere interi centri di riabilitazione robotica e non avere professionisti in grado di utilizzare al meglio i sistemi stessi.
Vi è poi un altro aspetto rilevante da considerare: un riabilitatore robotico esperto può seguire fino a 4 pazienti in contemporanea. Un modello comprovato da uno studio scientifico che consentirebbe di abbattere le liste d’attesa riabilitative e di aiutare più persone.
«Inoltre, questi sistemi offrono una grande gratificazione a riabilitatori e pazienti. Basti pensare che permettono di camminare a persone che altrimenti non potrebbero farlo, magari in carrozzina da tempo. Bisognerebbe vedere gli sguardi di questi pazienti e dei loro terapisti. E poi, non dimentichiamolo, i sistemi robotici possono ridurre il carico fisico del lavoro del fisioterapista, permettendogli di preservarsi e lavorare più a lungo».
Non importa quindi l’età dei professionisti, ma la loro voglia di sperimentarsi in quello che quasi certamente sarà il futuro della riabilitazione. Se siete tra questi, tenete gli occhi aperti. Presto potrebbe nascere un corso di formazione ad hoc.
Il futuro è sempre più robotico
Le prospettive della riabilitazione robotica sembrano rosee per i prossimi anni, come conferma Irene Aprile. «Vengo dall’ultima edizione del WCNR – World Congress for Neurorehabilitation di Mumbai in India.
Un congresso internazionale in cui è stato dato molto spazio alla riabilitazione robotica e durate il quale abbiamo presentato il nostro studio, che ha destato un notevole interesse, anche perché si tratta della più importanti sperimentazioni sulla riabilitazione robotica effettuata su pazienti con disabilità causate da patologie neurologiche.
La riabilitazione robotica sarà sempre più utilizzata in futuro, ma questo deve procedere di pari passo con la dimostrazione della sua efficacia.
Per la Fondazione Don Gnocchi sarà importante verificare su quali pazienti somministrarla e in che modo, come pure occuparsi della formazione dei fisioterapisti neolaureati, organizzare il modo di trattare il paziente all’interno delle palestre della Fondazione. Il lavoro dovrà coinvolgere sia la parte educativa sia quella organizzativa e della ricerca. Il nostro è un percorso agli esordi ma che dà già risultati incoraggianti».
Storie di persone vere
Quando si parla di studi e risultati a volte ci si può dimenticare che dietro ogni parola vi sono persone vere, con le proprie difficoltà e speranze. E così vale la pena raccontare alcune di esse.
Irene Aprile, medico neurologo e coordinatrice del Gruppo di Riabilitazione Robotica e Tecnologica della Fondazione Don Gnocchi, ricorda che alcuni pazienti molto gravi che hanno partecipato allo studio multicentrico della fondazione sull’efficacia della riabilitazione robotica nel recupero dell’arto superiore dopo ictus, «hanno mostrato un significativo recupero anche a distanza di un anno dall’ictus, riuscendo per esempio in azioni comuni come afferrare una bottiglia o bere da soli. Questi pazienti sono partiti da una completa inabilità a muovere il braccio.
L’obiettivo è stato raggiunto proseguendo la riabilitazione robotica anche dopo la fine dello studio.
Un altro caso è quello di una giovane donna giunta in cura presso la Fondazione Don Gnocchi dopo 3 anni dall’ictus, con impossibilità nell’uso della mano, che ha mostrato miglioramenti dopo aver effettuato 6 mesi di trattamento robotico 3 volte la settimana della mano affetta e completamente plegica, arrivando ad afferrare e rilasciare un bicchiere, con un movimento ormai dimenticato».
Per queste persone, partecipare allo studio ha fatto la differenza nella qualità di vita quotidiana.
A ogni robot il suo compito
Ogni robot è dedicato a un diverso distretto corporeo come spiega ancora la dottoressa Aprile. «Abbiamo sistemi robotici tecnologici che riabilitano l’arto superiore – spalla, braccio, avambraccio, mano – e altri dedicati all’arto inferiore che riabilitano nella funzione del cammino. Ci sono, inoltre, robot costruiti per la riabilitazione della funzione dell’equilibrio.
Sulla base delle loro caratteristiche possiamo poi macroscopicamente suddividerli in sistemi esoscheletrici e sistemi end effectors. I primi sono strumenti che avvolgono il distretto corporeo, lo rivestono, ne seguono l’anatomia. Nel caso della riabilitazione dell’arto superiore, si tratta di un braccio robotico che avvolge e segue la conformazione dell’arto. Gli end effectors, invece, si agganciano alla parte terminale del segmento corporeo riabilitato – alla mano o al piede – lasciando quindi libero l’arto.
Attraverso il loro motore, i robot fanno eseguire al paziente movimenti diversamente improponibili. Movimenti che possono essere passivi – ossia eseguiti completamente dalla macchina – o attivi – completamente eseguiti dal paziente – o ancora movimenti in cui la macchina assiste parzialmente e gradualmente il paziente sulla base della sua performance, entra cioè in gioco quando il paziente non riesce a completare l’esercizio».
Quali sono gli effettivi vantaggi dei nuovi robot?
«Queste macchine sono entrate in gioco quando si è capito che il recupero del paziente era tanto più rapido quanto maggiore l’intensità del trattamento», risponde Irene Aprile. «Esse permettono, da una parte, di intensificare le ore di trattamento, dall’altra di misurare le performance del paziente dopo una seduta o un periodo di sedute con misure oggettive, numeriche, che sono differenti da quelle tradizionalmente utilizzate – le classiche scale cliniche per capirci. Il trattamento con il robot può essere, inoltre, personalizzato sulla base delle caratteristiche del paziente; sarà possibile modificare l’esercizio, il grado d’inerzia, la difficoltà, ma anche effettuare un trattamento standardizzato definendo dei limiti.
Queste macchine consentono al paziente di effettuare movimenti altrimenti impossibili anche con l’ausilio del fisioterapista.
Pensiamo al caso della deambulazione, dove il robot è in grado di assistere il paziente nel cammino facendogli compiere movimenti anatomicamente corretti. Molti sono quindi i vantaggi dell’utilizzo di queste tecnologie, apprezzabili soltanto se il terapista che usa questi sistemi ha un expertise a riguardo, ha sviluppato cioè competenze sia teoriche (conosce le differenze tra i tipi di robot, come lavorano) sia pratiche (ha usato e sperimentato queste macchine, è in grado di impostare le valutazioni di cui parlavamo).
Il rischio è non svolgere il trattamento in modo ottimale e non sfruttare appieno i vantaggi offerti da queste tecnologie».
L’esperienza della Fondazione Don Gnocchi nella robotica
Da alcuni anni la Fondazione Don Gnocchi si interessa di riabilitazione robotica; da due ha iniziato un importante lavoro di upgrade dei modelli riorganizzativi per accogliere le tecnologie robotiche e rendere il loro utilizzo routinario nella pratica riabilitativa.
«La Fondazione ha visto nella tecnologia robotica interessanti prospettive future, ha creduto nella possibilità di offrire ai pazienti opportunità di trattamento avanzato», spiega Irene Aprile. «La Fondazione, da questo punto di vista, può essere considerata una realtà privilegiata perché il paziente, la sua qualità di vita, il suo benessere, sono per noi aspetti fondamentali e irrinunciabili.
Gli studi sperimentali, condotti nel centro di coordinamento (S. M. della Provvidenza a Roma) sull’uso delle nuove macchine ha dato risultati convincenti, i pazienti miglioravano e si dimostravano soddisfatti e gratificati dalla nuova riabilitazione robotica. A questo punto abbiamo lavorato su diverse strutture per accogliere queste tecnologie».
Da più di un anno, in nove Centri della Fondazione Don Gnocchi si utilizzano sistemi robotici: gli Irccs di Milano e Firenze, le due strutture di Roma (S. Maria della Pace e S. Maria della Provvidenza), ma anche altri Centri come Rovato (BS), La Spezia, Fivizzano (MS) e centri del Sud Italia, come S. Angelo dei Lombardi (AV) e Acerenza (PZ). In questi centri è stato realizzato uno studio multicentrico sul recupero dell’arto superiori dopo l’ictus.
Palestre robotiche dedicate
Nei centri della Fondazione Don Gnocchi le nuove tecnologie integrano e supportano il lavoro dei terapisti nella riabilitazione dell’arto superiore di pazienti colpiti da ictus o altre patologie neurologiche, con azione specifica in particolare sui movimenti di mano, polso, gomito e spalla.
«Il set usato nelle palestre robotiche della Fondazione è stato scelto con l’obiettivo sia di rispondere alle differenti situazioni che riguardano la disabilità a carico dell’arto superiore – deficit della spalla, della mano o dell’intero arto – sia di disporre di sistemi che permettano di utilizzare un modello organizzativo economicamente sostenibile e in grado di rendere la robotica accessibile (anche con il SSN) al maggior numero possibile di pazienti», precisa Irene Aprile. «La riabilitazione robotica nei diversi centri è stata preceduta da eventi formativi volti ad addestrare i terapisti e a uniformare la modalità e i protocolli di trattamento.
Il tutto tenendo conto che i sistemi robotici non possono essere messi nelle mani di terapisti inesperti: a tale proposito, sta nascendo una nuova figura del “terapista della riabilitazione robotica”, l’unico in grado di valorizzare le potenzialità della tecnologia, sfruttando il proprio background riabilitativo, adattandolo ai singoli casi e alle singole situazioni, sfruttando a suo favore l’aiuto che questi sistemi possono dare affinché il paziente venga riabilitato nel miglior modo possibile».
Riabilitazione robotica in pazienti colpiti da ictus, una ricerca senza precedenti
Con l’obiettivo di misurare l’efficacia dell’uso della tecnologia robotica nella riabilitazione dell’arto superiore in pazienti colpiti da ictus, la Fondazione Don Gnocchi ha avviato un inedito studio scientifico che ha coinvolto nove dei suoi centri in Italia.
I risultati conclusivi sono stati presentati lo scorso gennaio durante un convegno promosso dalla stessa Fondazione e patrocinato dalla Società di Medicina Fisica e Riabilitativa (Simfer) e dalla Società Italiana di Riabilitazione Neurologica (Sirn).
Una ricerca senza precedenti per numero di pazienti coinvolti. Dopo la selezione iniziale di 288 pazienti in 11 Centri della Fondazione (su un totale di 500 pazienti curati dalle strutture Don Gnocchi per la riabilitazione post ictus), sono stati complessivamente 251 i pazienti reclutati in soli 18 mesi, con un lavoro che ha messo a confronto i dati raccolti da pazienti trattati con le nuove tecnologie (127 pazienti) con i dati raccolti da pazienti trattati secondo le terapie tradizionali (124 pazienti).
I risultati dimostrano che la riabilitazione con tecnologie robotiche è certamente efficace nel recupero dell’arto superiore dopo ictus.
Non solo: per alcuni aspetti – come, per esempio, i movimenti di presa della mano, di flessione dell’avambraccio sul braccio e di abduzione della spalla – la riabilitazione con tecnologie robotiche si dimostra più efficace della riabilitazione convenzionale, permettendo al paziente di raggiungere, prima del tempo, importanti obiettivi di recupero motorio.
Lo studio ha, inoltre, dimostrato che i pazienti trattati con riabilitazione robotica tendono a sviluppare meno spasticità al gomito rispetto a quelli trattati con metodiche tradizionali: un aspetto non irrilevante, se si considera che la spasticità può essere un’importante complicanza nei pazienti post ictus che può inficiare in maniera significativa sul recupero motorio dell’arto superiore.
Da segnalare che alcuni pazienti molto gravi, all’inizio completamente inabili all’uso del braccio, continuando a fare riabilitazione robotica dopo la fine della sperimentazione hanno mostrato un significativo recupero anche a distanza di un anno dall’ictus, riuscendo in azioni comuni come quello di afferrare una bottiglia o bere da soli.
Anche il caso di una giovane donna giunta in cura presso la Fondazione Don Gnocchi tre anni dopo l’ictus, con impossibilità nell’uso della mano, ha mostrato miglioramenti dopo aver effettuato sei mesi di trattamento robotico della mano affetta e completamente plegica (tre volte la settimana), arrivando ad afferrare e rilasciare un bicchiere, con un movimento ormai dimenticato.
Beatrice Arieti e Roberto Tognella