Infezione periprotesica e reimpianto, individuati utili marker plasmatici

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Tra gli eventi avversi che possono verificarsi a seguito di un’artroplastica c’è, senza dubbio, l’infezione periprotesica.

Nonostante tutti gli accorgimenti che si possono prendere in sala operatoria, infatti, in una piccola percentuale di pazienti i tessuti intorno alla protesi sviluppano infezione: l’incidenza è variabile e dipende tanto dalla sede dell’impianto quanto dalla popolazione di pazienti considerata. Esistono, infatti, fattori di rischio, come il sovrappeso, il fumo di sigaretta, l’età e il diabete. Anche l’esordio di questa infezione può variare: in alcuni casi si presenta a pochi giorni dall’intervento, ma più spesso a qualche settimana (o qualche mese) di distanza.

La gestione di questi pazienti è sempre complessa e richiede interventi in più fasi. In primis è necessario lavare accuratamente i tessuti interessati, eliminando quelli in maggior sofferenza. Si rimuovono anche le parti in plastiche della protesi. Si passa poi a effettuare una biopsia per individuare il battere responsabile e poter quindi intervenire con gli antibiotici adeguati, direttamente in loco. È possibile anche effettuare un trattamento termoablativo o una pulizia profonda delle superfici protesiche.

Nei casi di infezione insorta a poco tempo di distanza dall’intervento questa procedura può essere sufficiente a salvare la protesi, se invece l’infezione è tardiva il processo è più lungo e richiede comunque la rimozione della protesi vecchia, per poi inserirne una nuova. In mezzo vi è il trattamento dei tessuti e la terapia antibiotica più adeguata al singolo paziente. Prima di effettuare una seconda artroplastica ci si deve però assicurare che i valori ematici indichino che l’infezione è guarita del tutto.

A tal proposito, il Journal of Orthopaedics and Traumatology riporta uno studio del Beijing Jishuitan Hospital, in Cina, che indica fibrinogeno e proteina C-reattiva (PCR) come buoni segnali di prognosi positiva per il reintervento di protesizzazione. Gli autori si concentrano sulla strategia di revisione protesica a due step. 119 i pazienti coinvolti, dei quali 11 hanno subito un fallimento terapeutico, o perché la procedura di revisione non ha risolto il problema infettivo, impedendo un nuovo impianto, vuoi perché il nuovo impianto è andato male.

Gli autori hanno quindi confrontato i valori plasmatici pre e post-intervento di questi 11 soggetti con quelli degli altri 108, in particolare concentrandosi su fibrinogeno, PCR, velocità di eritrosedimentazione (VES) e d-dimero: si sono così accorti che tutti sono decisamente inferiori nel gruppo che ha avuto successo terapeutico. Ulteriori analisi hanno indicato fibrinogeno e PCR come gli indici con maggiore specificità nell’indicare un’infezione persistente e quindi un rischio maggiore di prognosi negativa del secondo intervento protesico. Gli stessi autori sottolineano l’importanza di confermare questi risultati, sia perché il campione è piccolo, sia perché lo studio è retrospettivo e monocentrico. Tuttavia, poter basare una prognosi su un semplice test ematico, invece che su esami più approfonditi, potrebbe alleggerire il percorso di revisione protesica che è, di per suo, abbastanza faticoso per il paziente e anche per i clinici.

(Lo studio: Shao, H., Bian, T., Zhou, Y. et al. Which serum markers predict the success of reimplantation after periprosthetic joint infection?. J Orthop Traumatol 23, 45 (2022). https://doi.org/10.1186/s10195-022-00664-5)

Stefania Somaré