Epicondilite, gli interventi per arginarla

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Epicondilite, gli interventi per arginarlaCompare di norma a seguito di traumi o lavori usuranti. Colpisce il gomito ed è molto dolorosa. Come la si riconosce e di quali terapie necessita.

I più la conoscono come “gomito del tennista”: si tratta di un’infiammazione delle fasce muscolari e dei tendini che si inseriscono sull’epicondilo, ovvero la prominenza laterale dell’omero.
«A questo livello», interviene Carlo Grandis, responsabile dell’U.O. Chirurgia della Mano I dell’Irccs Istituto Ortopedico Galeazzi di Milano, «si inseriscono i tendini dei muscoli che fanno estendere il polso e le dita della mano, in primis l’estensore radiale breve del carpo. Quando queste fasce si infiammano si inspessiscono e causano dolore in tutti i movimenti del gomito, dal sollevamento di pesi alla flesso-estensione, e nei movimenti della mano».

Carlo Grandis

Nonostante il nome con cui è conosciuta, l’epicondilite, la sindrome dolorosa di cui stiamo parlando, si manifesta soprattutto in persone che svolgono lavori usuranti per il gomito.
«L’uso di strumenti a vibrazione, di trapani, di martelli pneumatici, ma anche di cacciaviti. Ogni sforzo ripetitivo per questa articolazione può, alla lunga, determinare un’infiammazione dell’epicondilo. Ovviamente esistono casi di epicondilite determinati da traumi, così come persone che la sviluppano pur non svolgendo lavori usuranti, magari perché affetti da malattie reumatiche o da altre patologie infiammatorie», sottolinea Carlo Grandis.

La natura di articolazione intermedia del gomito, inoltre, fa sì che anche movimenti ripetitivi della mano e del polso possano, alla lunga, sollecitare la zona e determinarne l’infiammazione: azioni come scrivere, digitare su una tastiera, girare una chiave, guidare possono, quindi, essere causa di una epicondilite. Ecco che il profilo del paziente tipo si fa complicato da delineare: si può in qualche modo individuare una fascia di età, compresa tra i 30 e i 50 anni, ma nulla di più.
«Qualunque sia la causa», riprende Carlo Grandis, «nei gradi più estremi questa è una patologia invalidante e molto dolorosa. Ecco perché è importante individuarla ai suoi primi stadi per intervenire in modo efficace e nel minor tempo possibile». Vediamo come.

Dalla diagnosi al trattamento

Accade di frequente che chi viene colpito da epicondilite la prima volta sottovaluti il dolore al gomito, inizialmente lieve. Molti soggetti si rivolgono al farmacista o a prodotti antiinfiammatori locali per affrontare la situazione. Ovviamente ciò non fa che peggiorare lo stato dell’epicondilite.

«Quando un paziente arriva accusando dolori al gomito durante l’estensione del polso occorre eseguire un’indagine clinica», spiega Carlo Grandis. «Il primo passo è la palpazione del gomito sull’epicondilo che dà dolore. Si possono effettuare, però, anche il test di Mills e il test di Cotzen. Il primo con il polso in flessione passiva. Il secondo con estensione attiva contrastata del polso. Questi strumenti, insieme, possono evidenziare l’infiammazione. Poi, ovviamente, si deve procedere con un esame ecografico per escludere la presenza di artrite o altre cause dell’infiammazione. L’ecografia, inoltre è utile per valutare l’ispessimento delle fasce interessate. Questo dato può determinare la scelta tra un intervento chirurgico e un trattamento conservativo».
Oggi, rispetto a qualche tempo fa, le possibilità di trattamento conservativo sono aumentate e, quindi, i numeri di intervento chirurgico sono calati. La terapia conservativa per l’epicondilite procede per step e, soprattutto, coinvolge più professionisti: fisiatra, fisioterapista, tecnico ortopedico e anche osteopata.

L’approccio conservativo: i tutori

«Il fulcro del trattamento conservativo dell’epicondilite è eliminare l’infiammazione», riprende Carlo Grandis. «Il primo passo da fare è, quindi, mettere a riposo il gomito. Poi si agisce con antinfiammatori locali o con altre terapie fisico-strumentali, che possono avere questo effetto, tra cui la laserterapia e le onde d’urto, che sono spesso le più efficaci. Un’altra via possono essere le infiltrazioni, anche di cortisone. Io tendo a sconsigliare questo approccio perché spesso dà un risultato transitorio e si corre il rischio che sali di cortisone si depositino a livello articolare, che la pelle decolori e il sottocute necrotizzi».
Importante nella terapia conservativa è l’utilizzo di tutori specifici per epicondilite.

Simone Prini

«L’azione dei tutori», spiega Simone Prini, responsabile dell’Officina Ortopedica dell’Irccs Galeazzi, «serve più che altro a contenere il dolore del paziente tramite una compressione esercitata a livello muscolare. Tale compressione limita il movimento e, quindi, riduce il dolore».
Sono tre i tipi di tutore esistenti in commercio a seconda di come viene effettuata la compressione.
«Il tipo più semplice consiste in una gomitiera con una zona più dura che va a premere nel punto specifico per interrompere il segnale doloroso. Semplice da indossare, questo prodotto ha un paio di difetti: tende a scivolare dal braccio quando la zona in tessuto si lascia andare e rende difficile centrare in modo preciso il punto di interesse.

Un secondo tipo di tutore», prosegue Prini, «è un cinturino abbastanza rigido che viene stretto al braccio del paziente nel punto giusto. Sul cinturino vi è una sorta di rilievo circolare che produce la compressione. Esistono vari tipi di cinturini, differenti per materiale tecnico utilizzato, ma tutti hanno un limite: la compressione non è puntuale, ma agita su un’area ampia, il che ne riduce un poco l’efficacia. L’ultimo tipo di tutore, invece, presenta un cuscinetto pneumatico. È il più efficace per il recupero del paziente perché l’azione di compressione viene effettuata proprio nella zona necessaria. Utilizzato in modo combinato con le onde d’urto risulta essere molto efficace».
Conclude il percorso terapeutico di questa patologia la fisioterapia, importante anche nell’approccio conservativo.

Fisioterapia e prevenzione delle recidive

Come già sottolineato, il gomito è un’articolazione intermedia, data la sua posizione tra spalla e polso. Ecco, quindi, che subisce indirettamente anche lo stress al quale sono sottoposte queste altre articolazioni. Un ulteriore aspetto che deve essere preso in considerazione durante la fisioterapia. Marco Gibin, fisioterapista presso l’Irccs Galeazzi, spiega: «gli esercizi che vengono fatti con il paziente durante le sedute coinvolgono il gomito, il polso e le dita della mano. Si tratta di movimenti di stretching, soprattutto, eseguiti in modo passivo e attivo. In alcuni casi può essere utile, tra una seduta e l’altra, mettere un taping kinesiologico, che fa da ponte tra le due sedute, permettendo di mantenere i risultati ottenuti con la fisioterapia. Il taping kinesiologico agisce, quindi, solo da coadiuvante. Altrettanto importante è che i pazienti eseguano a casa gli esercizi che gli vengono affidati a chiusura di seduta terapeutica».

Marco Gibin

Quando si ha a che fare con l’epicondilite, però, il fisioterapista ha anche il compito di capire quali sono le cause scatenanti dell’infiammazione.
«Occorre individuare i movimenti e le posture che sollecitano in modo eccessivo l’epicondilo e capire se si possono modificare e rimuovere. Infatti, se non si rimuovono le cause dell’epicondilite è probabile che si ripresenterà».
Ecco, quindi, che il fisioterapista può educare il paziente a gestire al meglio il carico lavorativo nell’arco della giornata, così da ridurre lo stress a carico del gomito.

«I suggerimenti che diamo, caso per caso, sono di igiene posturale e riguardano, per esempio, come tenere i gomiti sulla scrivania, come tenere la schiena, quante pause fare durante il lavoro. Utile può essere anche fare esercizi di rinforzo della muscolatura dell’epicondilo prima delle attività lavorative e di stretching a chiusura della giornata, così come applicare ghiaccio per qualche tempo dopo una sessione lavorativa particolarmente intensa».

E se per caso si verifica una recidiva, occorre mettere in atto la terapia fisioterapica ai primi cenni di infiammazione.
«I pazienti soggetti a epicondilite imparano a gestire lievi infiammazioni da soli e sanno quando è il momento di rivolgersi allo specialista».
Accanto a laserterapia, onde d’urto, infiltrazioni, il paziente può imparare anche a utilizzare la crioterapia per ridurre l’infiammazione. Con l’attenzione di effettuare dei cicli perché se continuativa la crioterapia può originare un effetto paradosso e peggiorare lo stato infiammatorio.
«Un aspetto che può migliorare l’efficacia del trattamento conservativo è inserire nel percorso un approccio osteopatico, capace di mettere il sistema corpo nelle condizioni migliori per accettare le correzioni fisiche veicolate dall’uso del tutore e dalla fisioterapia».
L’insieme di questi interventi è spesso efficace. Ci sono però casi nei quali è necessario intervenire chirurgicamente.

Il trattamento chirurgico

Nel 5-10% dei casi il trattamento conservativo non funziona. Ecco, quindi, che occorre rivolgersi alla chirurgia.
«Esistono diverse tecniche per eseguire questo intervento, ma l’obiettivo è eliminare le fasce infiammate e inspessite, fino a ottenere una distensione delle compagini muscolari che si fissano sull’epicondilo. Il post intervento richiede un riposo di tre settimane, finite le quali si può riprendere una progressiva attività manuale. In generale, la convalescenza dura 40-50 giorni, a seconda dell’attività lavorativa del soggetto. Nella mia esperienza clinica posso dire che le recidive post intervento sono praticamente nulle», afferma Carlo Grandis.

«L’intervento deve essere seguito dalla fisioterapia che», sottolinea Gibin, «deve anzitutto rispettare i tempi di guarigione dei tessuti trattati. Proprio per questo si inizia con delle mobilitazioni passive, effettuate dal professionista, per poi procedere con esercizi via via più autonomi».
Come per ogni altro intervento, se si vuole ottenere il massimo successo occorre che il paziente rispetti i protocolli che gli vengono dati, in termini di riposo ed esercizio.
«Cosa che di solito accade perché i pazienti vogliono evitare che il dolore ritorni», sottolinea Carlo Grandis.
Insomma, tempestività e capacità di lavorare in team sono due fattori essenziali nella riuscita del trattamento dell’epicondilite. Il resto è nelle mani del paziente.

Beatrice Arieti