Medicina di genere e fisioterapia

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Sottorappresentata nel mondo della ricerca, sottodimensionate nei ruoli apicali e/o decisionali, discriminate nell’ambito di studi di ricerca di base e sperimentale: le donne ancora hanno a che fare con ostacoli che si rifanno a una logica del gender e sessista. Il suo sperimento favorirebbe l’affermazione di principi di equità nella cura, e ben oltre la dimensione puramente sanitaria.
Se ne è parlato in occasione del convegno “Genders medicine in Physiotherapy Science. Medicina di genere nella scienza della Fisioterapia” (25 marzo, Irccs Ospedale Galeazzi-Sant’Ambrogio, Milano).

Scarseggiano le quote rosa

Almeno in ambito di ricerca e in alcuni settori di essa, quali la scienza, l’ingegneria, le tecnologie, la fisioterapia, ritenuti a maggior appannaggio dell’uomo: solo il 33% del totale dei ricercatori sono donne e di queste solo una quota parte, pari a circa il 48%, ha conseguito un dottorato.

Inoltre, in misura maggiore rispetto agli uomini, le donne sono legate a contratti precari e all’opposto ricoprono ruoli universitari elevati, come professore associato/ordinario o hanno posizioni decisionali in misura sensibilmente inferiore, mediamente pari a soli il 24%. E non ultimo sono meno sostenute nel lavoro di ricercatrici, in termini di ottenimento dei finanziamenti (11%).

«Le conseguenze», spiega Martina Putzolu, vincitrice di Women in Physiotherapy Science, bando di ricerca pensato per promuovere la presenza femminile nel mondo della Scienza della Fisioterapia, «sono chiare: un aumento del tasso di drop-out che aumenta del 20% le probabilità per la donna di uscire dal mondo accademico rispetto agli uomini, a causa di diversi fattori: demografici (meno donne impegnate nella ricerca), discriminazione di genere, autoselezione (la donna per libera scelta, per esempio per motivi personali/famigliari, potrebbe decidere di escludersi dalla carriera accademica), i sistemi di carriera specificatamente legati alla ricerca».

Medicina di genere

Non va meglio in ambito clinico, dove innanzitutto va chiarito il concetto di medicina di genere, ovvero la medicina delle differenze, che si (pre)occupa di valutare uguaglianze e diversità fra uomini e donne.

«La medicina di genere», dichiara Franca Di Nuovo, direttore dell’Unità Operativa di Anatomia Patologica dell’ASST Rhodense e referente della Regione Lombardia per la Medicina di Genere, «si riferisce a tutte le patologie che affliggono l’uomo, la donna, il bambino e l’anziano, le persone disabili, i transgender e le persone di etnia diversa.

La medicina di genere pertanto non esiste, esiste la medicina di genere specifica e va a permeare tutto il sapere salutare: è multidisciplinare, multiprofessionale e si estende a tutte le professioni sanitarie, compresa la fisioterapia. La medicina di genere punta ad abbattere il concetto di medicina fondata esclusivamente sul prototipo maschile, perseguendo e declinando quotidianamente una medicina neutra».

Ciò porta a disegnare una medicina sulla persona, che dialoghi e usi un linguaggio consono alla persona cui ci si rivolge, per esempio più o meno istruita, all’uomo e/o alla donna. Una medicina che studia, quindi, l’influenza del sesso e del genere quest’ultimo inclusivo di più fattori: ambientali, culturali, fede religiosa, luogo di residenza, stili di vita, condizioni socio economiche, relazioni. Tutti fattori che, in sinergia con la biologia, influenzano lo stato di benessere e di salute della persona. Il genere, pertanto, diviene un determinante di salute.

«Occorre introdurre il concetto di medicina di genere specifica», aggiunge Rossella Tomaiuolo, professore associato presso l’Università Vita-Salute San Raffaele, Milano e direttore della Scuola di Specializzazione in Patologia Clinica e Biochimica Clinica, «nella programmazione dell’offerta sanitaria per arrivare a una organizzazione dei servizi basata sull’equità di accesso e di fruizione, rispondendo in maniera appropriata alla domanda di salute.
È bene sottolineare che esiste una differenza fra equality ed equity, riferendosi nel primo caso al fatto che a tutti viene dato lo stesso strumento di cura, e nel secondo che a tutti è data la stessa possibilità di raggiungere l’obiettivo.

Questo aspetto può essere favorito da alcuni strumenti, ad esempio test di farmacogenomica che consentono di capire in quali pazienti un farmaco può rappresentare un beneficio aggiunto che correla anche a una riduzione di effetti collaterali, o il Gender Impact Assessment (GIA) che riesce a smascherare la definizione del pensiero dell’in-group verso l’out-group.

Quando si pensa in maniera stereotipata nella sfera cognitiva si avvia un processo di categorizzazione che aiuta a prendere velocemente delle decisioni; tuttavia, a livello emotivo quello stesso stereotipo potrebbe diventare un pregiudizio cui viene attribuito un giudizio positivo e/o negativo.

Il GIA contribuisce a ridurre le conseguenze negative del gender gap, promuovendo la parità, eliminando le diseguaglianze nella programmazione e attenzione degli interventi sanitari. Il GIA può essere applicato ex-ante, prima di processi decisionali, ed ex-post per la valutazione di eventi programmati».

La tecnologia nella medicina di genere

La tecnologia non si cura specificatamente della donna. Pensiamo, per esempio, aI crash test eseguito su manichini maschili, con determinate caratteristiche legate a peso e altezza; l’impatto da incidente stradale nella donna è sensibilmente diverso.

Uno studio americano condotto su 70 mila pazienti tra il 2012-2019 ha messo in evidenza che un ruolo fondamentale hanno età diverse, caratteristiche fisiologiche differenti, condizioni mediche, come per esempio l’osteoporosi, che potrebbero spiegare la diversa risposta all’evento.
«Lo studio», chiarisce Manuela Appendino, ingegnere biomedico presso il Politecnico di Torino, «mostra che pazienti maschi intrappolati in un’auto soffrono più di lesioni alla testa, al viso, al torace e agli arti, mentre le donne subiscono maggiormente lesioni al bacino e alla colonna vertebrale.

A livello ingegneristico, progettuale, sono variabili importanti da considerare, che esulano dai soli valori antropometrici di peso e altezza. Ogni dispositivo sanitario che viene programmato deve avvalersi delle competenze della usability engineering, l’insieme di criteri che delineano i potenziali pericoli e il contesto in cui la tecnologia verrà utilizzata e in quale modalità».

Al momento non esiste una tecnologia di genere, tuttavia negli ultimi anni un gruppo di imprenditrici ha creato il fenomeno del Femtech, un nuovo mercato dove si stanno strutturando app e dispositivi pensati per semplificare i vari aspetti quotidiani della salute delle donne, attraverso software, sistemi di diagnostica e monitoraggi pensati per il mondo femminile.

Ricerca scientifica al femminile

Vi sono sempre maggiori evidenze offerte dalla ricerca di base che attestano che cellule e tessuti, provenienti da organismi femminili e maschili, rispondono in maniera diverse a stimoli chimici, a sostanze, a fattori infettivi, come i virus: differenze che in parte si legano agli ormoni e in parte all’organismo che ha generato quelle stesse cellule.

Tali evidenze cominciano a trovare applicazione anche nella ricerca sperimentale che inizia a utilizzare modelli animali di entrambi i sessi, sebbene sia noto che quelli maschili forniscono dati più facilmente confrontabili con dati regolatori, hanno una variabilità ormonale meno disturbante in un’ottica di standardizzazione di una pratica.

«Occorre inoltre abbattere il tema sociologico della cecità di genere», commenta Rita Banzi, ricercatrice presso l’Istituto di Ricerche Farmacologiche Mario Negri Irccs di Milano e responsabile del Centro Politiche Regolatorie in Sanità, «ovvero la storica tendenza a pensare che la diversità di genere non influenzi lo sviluppo di malattie.

Tale concetto può essere superato con la raccolta di dati e indicatori finalizzati anche a ridurre la discriminazione delle donne in ricerca, mentre in prospettiva si dovrà pensare a sviluppare protocolli specifici per studiare ad esempio i farmaci in maniera distinta sulle popolazioni di uomini e di donne. Gli studi clinici devono essere quanto più possibile vicini alle popolazioni che utilizzeranno questi trattamenti nella pratica clinica».