È urgente una trasformazione che coinvolga sia gli attori del sistema sia le istituzioni e la politica, perché cambi la narrazione attorno ai servizi per la terza età insieme al linguaggio che li racconta, spesso in modo anacronistico e negativo: è quanto emerso dal Think tank fragilità, la tavola rotonda di Exposanità che ha fatto il punto sulle urgenze dei servizi per la terza età.

Esperti, aziende e operatori si sono confrontati sulla necessità di un cambio culturale che deve interessare i servizi per la non autosufficienza: stipendi, contratti, osmosi pubblico-privato, formazione e specializzazione i punti urgenti per la trasformazione del sistema.

Stipendi, contratti, Carta della qualità dei servizi, Fondo unico per la non autosufficienza, modalità di accreditamento, orientamento universitario, interazione e osmosi pubblico-privato: sono questi alcuni dei punti urgenti e necessari per un nuovo assetto dei servizi assistenziali alla non autosufficienza, emersi dalla tavola rotonda “Fragilità: verso un nuovo assetto dei servizi per la non autosufficienza?”, primo step del Think tank fragilità proposto da Exposanità, mostra internazionale al servizio della sanità e dell’assistenza, in calendario a Bologna Fiere dal 20 al 23 aprile 2021.

Una giornata di lavoro e di riflessione in cui sono stati coinvolti gli operatori del mondo socio-sanitario, con l’obiettivo di trovare proposte e spunti convergenti da tradurre in documenti concreti che sollecitino il dibattito pubblico e la politica. È urgente una trasformazione che deve coinvolgere sia gli attori del sistema, sia le istituzioni e la politica, perché cambi la narrazione attorno ai servizi per la terza età insieme al linguaggio che li racconta, spesso in modo anacronistico e negativo.

Ad aprire la tavola rotonda è stata Marilena Pavarelli, project manager di Exposanità, che si è concentrata sulla necessità di riorganizzare un sistema che non deve più essere ospedale-centrico: un tema su cui da 10 anni va avanti la discussione e che l’emergenza sanitaria ha messo chiaramente in luce.
Antonio Sebastiano, direttore dell’osservatorio Rsa Liuc – Università Cattaneo, ha moderato la tavola a partire da una riflessione sui numeri. L’Italia è fanalino di coda nei paesi Ocse per la long term care e i dati riferiscono di un’età media di persone nelle strutture di 85 anni all’ingresso, nei quali i problemi cognitivi e di demenza hanno un’incidenza del 60/70%: si tratta di situazioni molto complesse per le quali la domiciliarità non può essere considerata un’alternativa, ma semmai un’“idea romantica”, difficilmente percorribile. A maggior ragione se si considera che nel 2017 le ore di assistenza a un anziano sono state in media 17 all’anno. E – nonostante le strutture per la non autosufficienza siano entrate con la pandemia nelle cronache quotidiane come luoghi in cui ci si ammalava – Sebastiano ha fatto notare che, analizzando i dati Istat sui morti nel 2020, tra febbraio e aprile, l’incidenza dei decessi di anziani rispetto al quinquennio precedente, è stata maggiore tra i cosiddetti young older, ovvero persone tra i 65 e i 75 anni, fascia di età non preponderante nelle Rsa.

Ciò che è vero, tuttavia, è che l’emergenza sanitaria per le strutture è diventata economica perché i costi sono lievitati in modo esorbitante. Fondamentale per Sergio Sgubin, presidente Ansdipp, è che si pensi a finanziamenti a lungo termine, che le Regioni colmino i gap di bilanci per evitare che i centri chiudano, che si vada verso una rinnovata sinergia tra il mondo privato e quello pubblico. Sgubin – come Alberto De Santis, presidente Anaste – si è anche soffermato sul problema del linguaggio utilizzato dai mass media che non conoscono nel profondo il mondo socio-sanitario e ancora usano termini come “ospizio” o “cronicario”, frutto di un pensiero figlio degli anni ’80, quando il concetto di assistenza e di accoglienza era quasi inesistente.

De Santis, dal canto suo, a partire dalla considerazione della difficile interlocuzione con i governi che si sono susseguiti, ha rispolverato la proposta del Fondo unico per la non autosufficienza, che da 35 anni è attivo in Germania: di fatto, rinunciando a due giorni di ferie, i dipendenti avrebbero garantite le cure per i propri genitori anziani e per se stessi, al momento del bisogno. E tanti avrebbero già dichiarato di essere disposti a farlo, ma la resistenza da parte dei sindacati incombe.

Un altro tema trasversale affrontato durante la tavola rotonda è stato quello cruciale della “fuga” degli infermieri verso il pubblico, non appena il governo ha lanciato un bando per assumerne 30 mila: per i manager delle strutture si è trattato quasi di un “rapimento” da parte del servizio pubblico, oltre tutto poco lungimirante perché “togliere” personale alle strutture private per anziani equivale a fare sì che queste non siano più un filtro anche rispetto alla pandemia e si trovino costrette e indirizzare gli ospiti verso gli ospedali –intasandoli- non avendo personale sufficiente per occuparsene. Su questo punto, tuttavia, Nicola Draoli di Fnopi ha posto la questione delle motivazioni: perché un infermiere dovrebbe migrare verso il servizio pubblico? Per questioni economiche e contrattuali e per la scarsa attrattività che ad oggi il settore privato rivolto alla cura degli anziani ha sui lavoratori di settore. Concetto, questo, sostenuto anche da Francesco Ciaghi, Gis Fisioterapia geriatrica di AIFI. Ecco perché, quindi, le Università dovrebbero concentrarsi di più – nel momento orientativo e formativo – sulle caratteristiche e le peculiarità interessanti e specializzanti che il lavoro in strutture per anziani può garantire dal punto di vista della gratificazione professionale. Sullo stesso piano dovrebbero anche ragionare e lavorare i manager sanitari che, per Clelia D’Anastasio, presidente di ARAD – Associazione Ricerca Assistenza Demenza, già medico geriatra di territorio per l’Ausl di Bologna, dovrebbero possedere competenze economiche e sanitarie per poter gestire con maggiore qualità le strutture. Perché, se è vero che la narrazione mediatica le penalizza, è altrettanto vero che non tutte sono gestite in modo esemplare, come hanno riferito sia Isabella Mori, responsabile servizio di tutela Cittadinanzattiva che Michela Bentivegna di AITO: entrambe si sono soffermate sull’aspetto umano del lavoro con gli anziani, soprattutto in tempi di emergenza sanitaria, quando la sicurezza impone restrizioni che colpiscono il malato emotivamente e, poi, anche dal punto di vista della salute.

A sottolineare il ritardo organizzativo rispetto alla seconda ondata della pandemia sono stati Fabio Cavicchi di Uneba Emilia Romagna e Nicola Pisaroni, presidente Anoss i quali vedono nella mancata integrazione tra SSN e il mondo delle RSA una delle cause dell’impreparazione nei confronti di questa recrudescenza degli effetti del virus. Oltre tutto entrambi hanno ricordato come anche la differenza di gestione e di indirizzo tra regione e regione non aiuti questa osmosi che dovrebbe essere necessaria, anche per ciò che riguarda l’accreditamento delle strutture.