L’inizio di ogni nuovo anno scolastico segna un fondamentale momento di passaggio nella vita di tutti gli studenti e può rappresentare, per migliaia di giovani affetti da malattie reumatologiche pediatriche, anche l’occasione in cui ripensare la gestione della propria patologia e affrontare la cosiddetta transizione, lasciando la reumatologia pediatrica per entrare nel mondo della medicina dell’adulto.

«In Italia, ogni anno, 10.000 minori ricevono la diagnosi di una malattia reumatologica, come artrite idiopatica giovanile, lupus, connettiviti o vasculiti – illustra Andrea Doria, presidente della Società Italiana di Reumatologia –. Dopo essere stati seguiti da uno specialista pediatra, per i più grandi di loro arriverà il momento in cui dovranno iniziare ad affidarsi a un nuovo medico, il reumatologo degli adulti, e diventare attori protagonisti nella cura della propria condizione, affrancandosi gradualmente dall’intervento dei genitori. Così come si preparano ad affrontare nuove sfide scolastiche e autonomia crescente, i ragazzi che convivono con una malattia reumatologica hanno davanti a sé un altro importante rito di iniziazione: imparare a gestire una patologia cronica».

Nella stragrande maggioranza dei casi, le malattie reumatologiche pediatriche accompagnano il paziente anche nella vita adulta. Questo rende la transizione un passaggio inevitabile e molto delicato che, come ricordano gli esperti della SIR, non può essere lasciato al caso. «Il bambino non è un adulto in miniatura – ricorda Roberto Felice Caporali, presidente eletto della SIR –. Ha esigenze cliniche e assistenziali diverse, legate alla crescita fisica e psicologica. Allo stesso modo, il giovane adulto si confronta con nuovi bisogni, come la contraccezione o la gestione dell’autonomia terapeutica. Per questo la transizione deve essere un processo graduale, strutturato e condiviso tra pediatra reumatologo, reumatologo dell’adulto, paziente e famiglia. Un passaggio disorganizzato può portare a interruzioni di terapia, ritardi nelle cure o perdita di follow-up. La letteratura mostra, invece, che una transizione ben organizzata riduce riacutizzazioni e migliora l’aderenza terapeutica e la qualità di vita».

La European Alliance of Associations for Rheumatology (EULAR) e la Paediatric Rheumatology European Society (PReS) hanno stilato alcune raccomandazioni in proposito:

  • la transizione dovrebbe prevedere una serie di incontri, e non un singolo evento, durante i quali siano presenti entrambi gli specialisti che si avvicenderanno nella presa in carico del paziente;
  • è necessario un documento di transizione, che riassuma storia clinica e terapeutica del ragazzo;
  • il processo deve iniziare intorno ai 16 anni e concludersi quando il giovane è pronto, di solito entro i 18–20 anni;
  • va favorita l’autonomia del paziente nella gestione della malattia (conoscenza dei farmaci, gestione degli appuntamenti) mentre il coinvolgimento dei genitori deve diminuire gradualmente;
  • quando possibile, va nominato un transition coordinator o nurse manager che accompagni il percorso.

«La transizione non deve essere traumatica, ma un percorso costruito per garantire continuità di cura, fiducia e autonomia al paziente, supportando anche i genitori in questo cambiamento – sottolinea Caporali –. È il pediatra reumatologo che valuta quando iniziare il processo, che sarà sicuramente facilitato se la malattia è ben controllata e in remissione. Il reumatologo dell’adulto, dal canto suo, deve essere attento nell’approcciare un paziente che non è di nuova diagnosi ma ha già un suo vissuto di malattia e di cura di cui tener conto».

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