“Sostituzione di arto o parti di esso mancanti con dispositivi esterni”: questa è la più comune definizione di protesi, ovvero l’applicazione della tecnica al recupero di una funzionalità persa.
Voglio però partire da questo concetto e allargarlo a tutti gli aspetti che oggi vedono l’uso di tecnologie come estensione del nostro corpo o mente: dagli smartphone impiegati per l’organizzazione di qualsiasi operazione del nostro quotidiano, all’intelligenza artificiale, che sempre più sta diventando moltiplicatore delle nostre capacità cognitive.
I limiti tecnici sono sempre meno e comunque facilmente superabili, ma ciò che sembra ancora mancare in gran parte dei casi è una reale regolamentazione che guidi l’uso di tecnologie, per non trasformarle da strumenti dirompenti a rischi eticamente e oggettivamente discutibili.
Se il confine di una protesi fisica, come quella di arto, è chiaramente distinguibile, quello di uno strumento digitale lo è molto meno: dove finisce il nostro intelletto e dove inizia il supporto di una “protesi mentale” quale l’IA?
Molto si è discusso negli ultimi tempi sulla decisione del ministero dell’Istruzione di vietare l’uso di smartphone e tablet durante l’orario scolastico per tutti gli studenti fino alle scuole superiori. La correttezza etica di tale decisione è troppo soggettiva per essere discussa in poche righe e, da un certo punto di vista, mi trova concorde. La domanda che mi pongo è, invece, un’altra: è giusto demonizzare uno strumento che fa ormai parte di ogni aspetto delle nostre vite, non considerando il fatto che un divieto di questo tipo amplifica il divario già considerevole tra una scuola forse ancora troppo radicata in modelli di formazione passati e una cultura adolescenziale proiettata in un futuro governato dalla tecnologia? Non sarebbe forse più utile istruire gli attori principali di questo futuro a un utilizzo consapevole degli strumenti?
Se ciò non avverrà, il rischio concreto sarà una formazione completamente autosomministrata all’uso delle tecnologie, con il solo risultato di ottenerne un impiego frammentato, non regolamentato e poco professionale.
È perlomeno svilente pensare alla potenza di uno strumento come l’IA limitato a un uso giocoso come la creazione di qualche immagine o video, seppur magari divertente, o alla stregua di un comune motore di ricerca.
Chi in futuro avrà maggiori possibilità di successo è chi oggi s’impegna nella comprensione di un utilizzo efficace della tecnologia, immaginandone il coinvolgimento in realtà nuove e inventando, grazie alle sue potenzialità, professioni non ancora esistenti.
Formazione e regolamentazione, dunque: come sempre, si parte da questi due aspetti, per un utilizzo consapevole che realmente trasformi in positivo le nostre vite e non le releghi a farsi governare da uno scenario che rischia di diventare più grande di noi.
Ho sempre amato la tecnologia, l’ho sempre guardata con la curiosità di chi desidera comprenderne le basi di funzionamento, le potenzialità e i limiti. E se c’è una cosa che questo mio approccio mi ha insegnato, è che l’unico modo di renderla realmente “pericolosa” è pensare di trasformarla in un sostituto delle capacità umane.
Ricordiamo sempre che uno strumento deve rimanere tale, amplificando e migliorando le nostre prestazioni, ma mai sostituendosi a esse.
Tornando alla definizione iniziale di protesi, questa ci mostra come un dispositivo di questa natura possa perfezionare e potenziare il lavoro prodotto da un corpo umano reso deficitario da una menomazione. Una protesi di arto potrà supportarci nel ripristinare le nostre funzioni deambulatorie, ma non potrà mai insegnarci a camminare o a farlo per gli scopi più corretti. Allo stesso modo, un algoritmo di IA potrà aiutarci a produrre documenti, sviluppare progetti, compiere ricerche, ma non potrà né dovrà mai prendere decisioni al posto nostro.
Se un confine tra uomo e strumento esiste, è forse identificabile proprio nella capacità di discernimento e valutazione della complessità tipica della socialità e del vivere comune, mista tra competenza, etica ed empatia, che solo la mente umana può avere, insostituibile e non replicabile da alcun algoritmo.

