L’osteoporosi e l’utilità degli ausili

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L’obiettivo degli ausili ortopedici di supporto per l’osteoporosi è cercare di ridurre il più possibile il rischio delle fratture ossee. «Il presidio ortopedico è importante», spiega il dott. Nicola Perrino, tecnico ortopedico e direttore del Centro Ortopedico Rinascita di Cinisello Balsamo (MI), «non solo nell’ambito di un programma terapeutico, ma anche nella prospettiva di un piano preventivo. Se scelti e usati correttamente, i presidi contribuiscono a sostenere in modo efficace il segmento interessato dal cedimento». Dato che la scelta tra i presidi in commercio è vasta, tra i fattori che determinano la scelta di un ausilio rispetto a un altro occorre tenere conto anzitutto dell’entità della patologia, della sintomatologia, della morfologia del paziente, dell’età, del grado di tollerabilità e dell’autonomia del paziente. «È anche necessaria», sottolinea Perrino, «un’adeguata conoscenza tecnica da parte del medico proscrittore e di tutte le figure professionali che ruotano attorno al paziente, perché solo se lo specialista, il tecnico ortopedico e il fisioterapista operano in sinergia è possibile ottenere buoni risultati».

Quali tutori?
I presidi con funzioni riabilitative, preventive o immobilizzanti più in uso in questi casi sono:
• ortesi per il piede – plantari e/o scarpe, utili per conferire stabilità e ridurre l’urto del tallone al suolo, limitando i microtraumi, principali cause delle fratture;
• tutori per il ginocchio – alla comparsa di alterazioni dell’asse femoro-tibiale, questi tutori permettono di creare una forza di spinta per ridurre il valgismo o il varismo delle ginocchia;
• tutori per l’anca – proteggono un’area che, se sottoposta a forti urti, potrebbe fratturarsi; hanno anche la funzione di scarico, per gravare sulla colonna vertebrale;
• tutori per il polso – sostengono un’articolazione che deve sopportare forti sollecitazioni e la proteggono da fratture dovute alla compressione che può determinarsi tra un osso e l’altro;
• tra i presidi più usati con funzioni riabilitative, preventive o immobilizzanti vi sono le ortesi per il tronco, ossia busti e corsetti.
«Busti e corsetti si differenziano per tipo e struttura, ma in generale oggi sono più leggeri rispetto al passato e sono costruiti con materiali innovativi. Il costruttore deve rispettare tre regole fondamentali: la gravità, le tre spinte e i punti di applicazione. In un corsetto, lo scarico a terra nell’azione antigravitaria è realizzato in modo indiretto, sfruttando le ali iliache e trasmettendo il carico a terra attraverso le gambe. Per raddrizzare una curva o allineare due segmenti contigui angolati tra loro servono invece tre spinte: la prima esterna dalla parte della convessità, le altre due contrarie, più lontane possibili e d’intensità pari a metà della prima. Per ottenere un’elongazione del tronco dal basso verso l’alto bisogna tenere conto dei punti di applicazione, ossia avere un punto di contrascesa (che impedisca al busto di salire), un punto di contro discesa (per evitare che il tutore scenda) e punti di contro rotazione, per evitare che il tutore ruoti vanificando la sua efficacia o, peggio, creando danni».
Il trattamento ortesico nel tratto lombare, uno dei più colpiti dalla malattia, è ridurre o annullare il dolore: ciò è possibile se si esercitano l’elongazione, l’estensione e l’immobilizzazione del segmento interessato. Si tratta senza dubbio del tratto della colonna vertebrale più soggetto a disturbi e degenerazioni, sia perché è destinato a sopportare il maggior carico sia perché è sottoposto a maggiori escursioni articolari».
«La soluzione ortesica», prosegue il dott. Perrino, «va valutata anche in base alle caratteristiche del fisico di ciascun paziente e va costruita tenendo conto delle problematiche specifiche. L’osteoporosi interessa generalmente più vertebre, in prevalenza con cedimenti a cuneo con base posteriore (cifotizzanti), dislocati spesso nel tratto dorso-lombare. Il corsetto, in questi casi, va pensato come dispositivo per fare ginnastica e memorizzare un assetto posturale migliore, naturalmente da usare part time».
I tradizionali busti in stoffa e stecche, però, non sono indicati perché il loro punto di applicazione è troppo basso e si rischia di accentuare la curva cifotica. I busti iperestensori a tre punti, invece, sono utili per trattamenti temporanei post-fratturativi, tuttavia sono poco indicati in caso di modificazioni strutturate del rachide e per l’uso a tempo indeterminato da parte del paziente. I busti iperestensori vertebrali (a tre punti), infatti, sono nati come dispositivi da Pronto soccorso per il trattamento di fratture traumatiche in soggetti morfologicamente normali. Questo tipo di busti si adatta male a donne anziane con morfologia deformata da cedimenti osteoporotici. Questi busti, infatti, non rispettano le regole generali: sono sprovvisti dei punti di contrascesa e controdiscesa, vanno continuamente riassestati e da seduti salgono fino alla zona giugulare, diventando difficili da indossare da parte di pazienti con gravi cifosi.
«Il busto ideale per il trattamento di queste patologie», puntualizza Nicola Perrino, «deve invece esercitare una congrua presa di bacino (senza questa nessun busto è efficace) e sviluppare un’azione elongativa e un’altra in iperestensione. L’elongazione e l’iperestensione blanda si raggiungono attraverso una stimolazione sottoascellare e una corretta presa di bacino. Quest’ultima, se realizzata in modo corretto, impedisce al busto di scendere, consente l’elongazione e diventa base portante del rachide».
Una colonna osteoporotica, però, ha bisogno del giusto sostegno, ma deve anche poter praticare movimento: non va assolutamente immobilizzata. Nel progettare un busto bisogna pensare di far lavorare la muscolatura, per scaricare la struttura ossea sgravandola da un carico eccessivo rispetto alle proprie capacità di sostegno. Il busto modulare con stimolatori ascellari è la soluzione ottimale, perché sostiene senza bloccare. È costruito in materiale plastico, dunque è leggero e flessibile. I tempi di produzione medi sono di due o tre giorni.
Un’ultima considerazione. «Può accadere che, nonostante le corrette indicazioni, l’ortesi non funzioni», conclude Perrino. «Spesso si riscontra che l’ortesi è stata eseguita, montata o regolata male, dunque va modificata o rifatta».

Nicoletta Modenesi